Cronaca

Coronavirus, nel focolaio di Bergamo i medici di base senza protezioni: “Andiamo al macello”. L’ospedale: “C’è disperato bisogno di personale”

Nella provincia più colpita dal Covid-19 con 4305 contagi, i medici di famiglia sono in prima linea senza i presidi sanitari adatti: "Rinunciare è impossibile, ma rischiamo la vita". La terapia intensiva di Bergamo è piena, così gli alpini hanno iniziato ad allestire un ospedale da campo in Fiera per "alleggerire" il Papa Giovanni XXIII. Ma la Regione in serata ha bloccato tutto: "Non c'è il personale sanitario"

A mani nude, in un territorio che non si conosce, contro un esercito invisibile. Da settimane i medici di base che operano nella provincia italiana più colpita dal coronavirus, Bergamo, sono buttati in prima linea, con poche armi spuntate, a fronteggiare una malattia che possono solo sperare di evitare. “Ogni giorno andiamo al lavoro rischiando la vita. Con un’aggravante: sappiamo di rischiare la vita”. Però la telefonata arriva, c’è una persona che chiede il tuo aiuto. Rinunciare è impossibile. “Si va lo stesso. Senza protezioni, senza maschera, andiamo al macello“.

MEDICI FUORI COMBATTIMENTO – Sono 118, su 600, i medici ammalati o in quarantena della Bergamasca. Martedì la notizia del primo morto positivo al Covid-19: Mario Giovita, 65 anni. E stamattina quella della seconda vittima: Antonino Buttafuoco, 66 anni, che lavorava a Ciserano. In tanti, dopo la malattia, stanno tornando a occuparsi dei loro assistiti. “Sono stato a casa una settimana con una febbre alta che non ne voleva sapere di scendere. Ora sto meglio, ancora pochi giorni e rientro. La situazione è drammatica, ricevo 200 chiamate al giorno”, ci racconta un medico della Valle Brembana. E mentre sulle montagne, a Mezzoldo, si piange un altro sindaco portato via dal coronavirus, Raimondo Balicco di 77 anni, dall’alta valle fino a Zogno – dove il numero dei decessi è così elevato che la parrocchia ha deciso di far suonare una sola volta le campane della chiesa – i medici di base scarseggiano. “Uno è intubato al Papa Giovanni XXIII. Altri sono ammalati, altri ancora non ce la fanno, non riescono a reggere lo stress. E tanti sono provati dai lutti in famiglia”. In Val di Scalve va ancora peggio: tutti e tre i medici sono fuori combattimento e al loro posto sono stati inviati un medico e un infermiere militari.

“MANCANO I PRESIDI SANITARI” – Il motivo del caos è sulla bocca di molti: i provvedimenti sono stati presi troppo tardi (quando sono stati presi: si veda la mancata creazione di una “zona rossa” tra Nembro e Alzano Lombardo) e le persone andavano isolate prima. Non solo: “I pazienti li visitiamo con le mascherine chirurgiche, che non servono a nulla”, dice un dottore della Valle Seriana, il focolaio del Covid-19 insieme a Codogno, nel Lodigiano. “Dall’inizio dell’emergenza abbiamo ricevuto dall’Ats un pacchetto di mascherine e due di guanti. Stop. Le ffp2 e le ffp3? Le vediamo solo in tv”. Per non parlare dei camici. In Valle Brembana quelli monouso non esistono: “Il mio lo metto in lavatrice ogni sera a 90 gradi. Poi sugli indumenti passo l’alcol. Mascherine specifiche? Qui non ci sono. Perché i colleghi negli ospedali sì e noi no?“. Il cortocircuito, nella catena di contagi, è evidente. Un medico privo dei presidi sanitari necessari contrae l’infezione. È asintomatico e continua a lavorare. Visita persone generalmente fragili, di solito con patologie, e trasmette loro il virus. E infine queste, nei casi peggiori, vengono portate nel più vicino reparto di Rianimazione.

Una possibile soluzione l’ha azzardata il presidente dell’Ordine dei medici, Guido Marinoni: dare a ciascun paziente a casa con la polmonite un saturimetro (lo strumento che misura la percentuale di ossigeno nel sangue). “Sarebbe di grande aiuto, perché riusciremmo a gestire meglio i malati”, commenta un dottore, “il problema è che al momento, in Valle Seriana, non si trovano da nessuna parte. Cosa diciamo loro? Di comportarsi come se avessero il coronavirus, anche se nessuno va a fargli il tampone”.

BERGAMO IN LUTTO – Intanto la terapia intensiva del Papa Giovanni XXIII è satura da domenica. Martedì la notizia ufficiale degli 80 posti esauriti. In città, nelle prime due settimane di marzo, ci sono stati “quattro volte più morti che nelle quattro settimane di marzo dell’anno scorso”. A dirlo, ieri, è stato il sindaco Giorgio Gori. Che ha aggiunto: “I numeri ufficiali dei decessi da coronavirus non tengono conto di quelli che non vengono portati in ospedale e a cui non viene fatto il tampone”. Nel capoluogo i forni crematori lavorano 24 ore al giorno e ieri persino il Papa ha telefonato al vescovo, Francesco Beschi, preoccupato “per i tanti defunti”. Così, di fronte al cimitero monumentale, è arrivato l’esercito: 60 bare, disposte in una lunga fila, sono state portate vie, dirette in comuni dell’Emilia e del Piemonte per la cremazione. Stamattina, poi, l’appello in inglese (perché arrivi anche all’estero) del direttore del dipartimento di Medicina, Stefano Fagiuoli: “Abbiamo disperato bisogno di infermieri e medici, oltre che di apparecchi di ventilazione e dispositivi di protezione individuale”.

L’OSPEDALE DA CAMPO SI FERMA – La diga per arginare questo tsunami avrebbero dovuto metterla su nel giro di cinque-sette giorni gli alpini, ma la Regione Lombardia, ieri sera, ha frenato tutto. Mercoledì mattina le penne nere e il personale della Protezione civile avevano già ispezionato l’area della Fiera. Il progetto era stato attaccato con lo scotch-carta su un pannello per avere davanti agli occhi l’obiettivo: riempire di tende i 6mila metri quadrati dell’area dove avevano iniziato a tirar via la tappezzeria. Si sarebbe dovuto procedere all’installazione della linea di distribuzione dell’ossigeno – che come tutti abbiamo imparato in questi giorni è essenziale per molti pazienti – che sarebbe stata garantita da un apposito serbatoio istallato all’esterno dei padiglioni. In serata, tuttavia, la frenata improvvisa, annunciata da Gori: “Una doccia fredda”. Il direttore della Protezione civile di Regione Lombardia, racconta, “chiede di sospendere l’installazione della struttura ‘che potrà essere ripresa quando si renderà disponibile il personale medico necessario’. Ma come?”, si chiede Gori. “È un preoccupante segno di incertezza e di confusione nella gestione di un’emergenza che richiede idee chiare e decisioni certe”. “Non c’è alcun cambio di programma”, ha replicato questa mattina l’assessore al Welfare, Giulio Gallera. “Allestiremo l’ospedale quando ci sarà il personale”.

I NUMERI – Se si riprenderà la costruzione, come spiegato dal direttore dell’ospedale, Sergio Rezzini, dei 200-250 posti previsti 100 circa “saranno occupati da chi ha superato la fase acuta” ma ancora necessita di ossigenoterapia. Verrebbero quindi montate dodici tensostrutture di due camere ciascuna a quattro posti in grado di ospitare coloro che necessitano di terapia subintensiva. Le altre tensostrutture avrebbero 30-40 posti e sarebbero dedicate a quei pazienti meno gravi che sono in via di dimissione o in via di trasferimento in uno dei tre hotel che sono stati messi a disposizione da imprenditori della Bergamasca. Tutto questo sarebbe dovuto servire, nel giro di pochi giorni, a dare sollievo agli ospedali – in particolare il Papa Giovanni XXIII – che non sanno più dove mettere i pazienti, anche gravissimi, e che sono costretti a chiederne il trasferimento in altre regioni. Uno di questi diretto verso la Puglia non ce l’ha fatta.

OPERATORI SANITARI DALLA CINA – Già a mezzogiorno di ieri si poteva sentire il rumore dei trapani al lavoro, eppure ora si dovrà fermare tutto. Ci sarebbero dovuti essere anche due ambulatori, la radiologia, la farmacia e il laboratorio analisi. Tutte le strutture sarebbero state montate all’interno dei padiglioni fieristici che possono garantire le necessarie condizioni climatiche. Se il progetto verrà ripreso, saranno posizionati anche i container dei servizi igienici e docce forniti dalla Protezione civile. Come ogni ospedale da campo – come avvenuto per il terremoto in Centro Italia o quello installato in Giordania per i profughi siriani – ci sarebbe stata anche una cucina. I pasti dovevano essere garantiti dalle cucine della colonna mobile nazionale degli alpini che avrebbero dovuto preparare anche fino a 1200 pasti al giorno. Fino a ieri sera, era previste circa cento persone per mandare avanti la struttura, compresa una buona fetta di personale sanitario dalla Cina. Ora, però, c’è solo una grande incertezza. In Fiera c’era stato anche Gori, che da giorni invita i cittadini a restare a casa. Aveva detto: “Si tratta di un aiuto importante per gli ospedali e uno sforzo grande”. È stato costretto a rimangiarsi tutto. E peccato per tutti i bergamaschi, medici e infermieri in primis, che ci avevano creduto.

Twitter: @albmarzocchi @trinchella