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Luigi Di Maio ministro degli Esteri. Per carità, le lacune si colmano: ma era necessario?

Il ministero degli Esteri riesce difficile all’avvocato Giuseppe Conte, presidente del Consiglio confermato. Nel suo primo governo, aveva scelto – o glielo aveva scelto il presidente Mattarella? – una persona qualificata, competente, garbata e con consuetudini e frequentazioni internazionali, specie europee, Enzo Moavero Milanesi, che era però un politico peso mosca. E, così, Moavero s’è visto poco e sentito meno, mentre il lavoro da ministro degli Esteri davano piuttosto l’impressione di farlo i vicepremier Matteo Salvini e Luigi Di Maio.

Moavero doveva garantire – si disse – l’ancoraggio dell’Italia all’Europa dagli sconquassi che avrebbe prodotto il responsabile degli Affari europei Paolo Savona. In realtà, Savona si avvertì poco e restò meno: dei rapporti con l’Unione s’occuparono il premier Conte in prima persona e il ministro dell’Economia Giovanni Tria.

Adesso, la situazione pare rovesciata: alla Farnesina c’è un politico peso massimo, per i ruoli che Luigi Di Maio ha: capo politico del Movimento 5 Stelle e capo delegazione del M5S al governo; però con un curriculum vergine di qualifiche e competenze per fare il ministro degli Esteri. Manco la passione per i viaggi sembra un suo tratto peculiare.

Intorno a lui, in ruoli utili a calmierare – se del caso – incongruenze e intemperanze europee del nuovo ministro, persone qualificate e competenti come il ministro per l’Economia Roberto Gualtieri, che lascia l’incarico di presidente della Commissione economica del Parlamento europeo, e anche quello per gli Affari europei, Vincenzo Amendola: entrambi, però, hanno molto meno peso politico di Di Maio.

Gualtieri all’Economia è “un bene per l’Italia e per l’Europa”, dice la prossima presidente della Bce, Christine Lagarde, prima ancora che la scelta sia ufficializzata. E Bruxelles è pure pronta a salutare con favore la designazione a commissario europeo di Paolo Gentiloni, un ex premier ed ex ministro degli Esteri: di che aumentare la caratura politica della Commissione Ursula von der Leyen.

La scelta di Di Maio è stata subito oggetto di un fiorire di ironie più o meno facili e di notizie più o meno fake: la solita storia delle lingue; la cattiveria secondo cui l’ex vicepremier si sarebbe scelto quel posto perché, nel cerimoniale di Stato, il ministro degli Esteri viene subito dopo il presidente del Consiglio; la fantomatica telefonata al presidente Mattarella di Angela Merkel per dichiararsi “delusa” della scelta – fonte Dagospia. Non è neppure la prima volta che agli Esteri finisce qualcuno senza esperienza specifica, ma per seniority politica: basti ricordare Gianfranco Fini, che comunque non fece male nel ruolo; e, più di recente e più infaustamente, Angelino Alfano.

Ma c’era proprio bisogno di mettere agli Esteri l’uomo che scelse di andare a dialogare in Francia con i gilets jaunes – i cattivi del movimento, i casseurs – solo per mettere un dito nell’occhio, riuscendoci, al presidente francese Emmanuel Macron (che, per un po’, richiamò a Parigi l’ambasciatore a Roma)? E che presentò come alleati europei del M5S partiti rivelatisi fantasma? E che in Cina sbagliò il nome del presidente cinese, chiamandolo Ping invece di Xi?

Per carità, alcune lacune si colmano, molte cose s’imparano. E i diplomatici della Farnesina sono – è il mio giudizio – la fetta meglio preparata e più efficiente della pubblica amministrazione italiana e, a starli a sentire, possono offrire consiglio e supporto. Ma i dossier sull’agenda del ministro sono tanti e importanti: il ruolo, e il peso, dell’Italia in Europa e nelle relazioni transatlantiche, che significa riuscire a essere amici degli Stati Uniti nonostante Donald Trump, e non essere solo amici di Trump; il ruolo e il peso dell’Italia nel Mediterraneo, con la questione libica in primo piano; e – sono suo parole – l’internazionalizzazione del Sistema Paese, con particolare attenzione all’Africa, alle migrazioni e alle economie emergenti. Che, detto così, pare più un programma da neutrale e non allineato dei tempi di Nehru e Sukarno che da Paese del G7: un testo da Alessandro Di Battista più che da consigliere diplomatico.

Il primo punto sull’agenda del ministro degli Esteri dovrebbe, a mio avviso, essere riparare i danni delle recite a soggetto del Conte 1, ridare all’Italia una presenza e una credibilità a livello politico nelle sedi internazionali: i diplomatici l’hanno sempre assicurata, ma l’ancoraggio d’un ministro è altra cosa, specie ora che la diplomazia è tutta fatta di incontri diretti e non mediati. Luigi Di Maio è la persona giusta? I dubbi ci sono, ma giudichiamolo da quel che farà, non dagli errori e dalle gaffe fatti finora.