Capitoli

  1. Crisi d’impresa, salta la riforma della amministrazione straordinaria. ‘Comanda il ministero, pagano i contribuenti’
  2. La reticenza del ministero su costi e risultati dei commissariamenti
  3. Il tentativo fallito: meno potere al ministro, giudizio del tribunale sul piano 
  4. Più tutele per i creditori e fuori le aziende non strategiche
  5. Il nodo degli incarichi multipli e dei compensi dei commissari
  6. "Operazione trasparenza" di Calenda. Ma è una foglia di fico
Lobby

Il nodo degli incarichi multipli e dei compensi dei commissari - 5/6

Il ddl che rivede le norme sulle procedure di insolvenza ha perso il pezzo sulle grandi aziende. Che continueranno a essere gestire da uno o più commissari nominati dal titolare dello Sviluppo. "Un sistema unico al mondo e inefficiente", spiega un membro della commissione incaricata di scrivere il testo. "Ma consente alla politica di prospettare continuità aziendale e decidere le nomine. I costi ricadono sulla collettività". Vedi Alitalia

Uno dei punti di frizione che hanno fatto deragliare il progetto di riforma è quello delle nomine dei commissari. Spulciando l’elenco sul sito del Mise si nota che gli stessi nomi compaiono tre, quattro volte. La commercialista Stefania Chiaruttini, per esempio, dal 2002 è stata nelle terne che hanno amministrato Itea, Tecnosistemi, Giacomelli e la società di call center Agile. Quattro anche gli incarichi collezionati da Lucio Francario: Cirio dopo il crac del 2003, Federici Stirling, Istituto di vigilanza dell’urbe, Mabo Prefabbricati. Stefano Ambrosini ha all’attivo l’Azienda servizi ambiente, la carrozzeria Bertone, Infocontact e l’Istituto di vigilanza partenopea combattenti e reduci. Francesco Fimmanò è stato commissario di Società ittica europea, Formenti Seleco e Fashion District Group, la ex fabbrica tessile Bemberg chiusa nel 2009. Tre poltrone da commissario anche per Vincenzo Sanasi D’Arpe (Cablelettra, Maflow e Idi) e Daniele Discepolo (Livingston, Meraklon e Valtur). Le remunerazioni, fino all’anno scorso, venivano fissate sulla base di un decreto del 2012 sui curatori fallimentari, che le commisurava all’attivo: ergo più grande è il gruppo, maggiore è il compenso. Il ministero poteva poi incrementare la cifra in base a “criteri di economicità, efficacia ed efficienza della procedura”. Così, per esempio, Enrico Bondi e il suo staff arrivarono a incassare per il risanamento di Parmalat 32 milioni di euro.