Capitoli

  1. Riforma Madia, rivoluzione mancata. Su partecipate, dirigenti intoccabili, licenziamenti e meritocrazia tante occasioni perse
  2. Sui licenziamenti nulla di nuovo rispetto alla riforma Brunetta
  3. Obiettivi fumosi e organismi di valutazione nominati dalla politica
  4. Ai premi di risultato vanno le briciole: "500-600 euro all'anno"
  5. Non passa la riforma della dirigenza: addio ruolo unico
  6. La sforbiciata alle partecipate pubbliche? "Misure irrilevanti o dannose"
Lobby

La sforbiciata alle partecipate pubbliche? "Misure irrilevanti o dannose" - 6/6

E' il settimo intervento "rivoluzionario" di riordino della pubblica amministrazione nell'arco di 24 anni. E doveva essere un fiore all'occhiello del governo Renzi. Ma i furbetti del cartellino erano licenziabili anche prima, i sistemi di valutazione dei risultati rimangono discrezionali, il ruolo unico per la dirigenza è saltato e la sforbiciata alle aziende pubbliche è depotenziata. L'economista: "Sullo sfondo resta una logica di forte influenza della politica"

“Non un euro delle risorse pubbliche, delle tasse pagate dai cittadini, deve andare sprecato. Per questo aggrediamo gli enti inutili e resteranno solo le partecipate pubbliche che servono, mentre saranno eliminate quelle che sono state utilizzate come un ammortizzatore sociale e non per dare risposte ai cittadini”. Parola di Marianna Madia, il 3 agosto 2015. Quello sulle partecipate è stato l’ultimo decreto attuativo della riforma approvato in consiglio dei ministri, nella versione corretta dopo la bocciatura della Corte costituzionale. Una versione talmente piena di cavilli e scappatoie che Carlo Cottarelli, ex commissario alla spending review autore nel 2014 di un dettagliato piano di riforma delle aziende pubbliche, fino al prossimo autunno direttore esecutivo per l’Italia al Fondo monetario internazionale, opta per un “no comment”. A depotenziare la norma, peraltro, sono non tanto le deroghe – non solo il presidente del Consiglio ma pure tutti i governatori regionali potranno decidere a piacimento quali società “salvare” dalla stretta – quanto i parametri stessi con cui selezionare le partecipate da chiudere. Roberto Perotti, ex consigliere economico del governo Renzi per la revisione della spesa, ha scritto su Repubblica che “una riforma efficace dovrebbe intervenire con il machete basandosi su tre semplici principi: un limite alle attività gestibili in forma societaria”, per esempio non c’è bisogno di una società di servizi cimiteriali perché può occuparsene direttamente l’ente locale, “un limite inderogabile al numero e alle dimensioni delle partecipate a seconda degli enti locali (…) e cinque fasce di retribuzione di dirigenti e amministratori, basate su criteri dimensionali”.

Invece “la riforma approvata dal governo adotta solo il terzo principio; per il resto prende una strada completamente diversa, adottando misure irrilevanti o addirittura dannose, oltreché quasi tutte già presenti nell’ordinamento”. Sull’amministratore unico, che nella prima versione era un obbligo, deciderà l’assemblea dei soci, che “con delibera motivata” potrà optare per un consiglio formato da 3 o 5 membri. Anche se la società è piccolissima. Dovranno poi essere chiuse le aziende con più amministratori che dipendenti, ma la soglia minima di fatturato necessaria per scampare alla tagliola è stata dimezzata, da 1 milione a 500mila euro, fino al 2020. E ancora: vanno chiuse le partecipate che hanno chiuso in rosso quattro degli ultimi cinque bilanci, ma sono escluse le società che gestiscono case da gioco. I casinò di Saint Vincent, Campione d’Italia, Sanremo e Venezia sono salvi. E le cinque fasce in cui andranno graduati i compensi, principio chiave secondo Perotti? Non pervenute. Bisogna aspettare ottobre.