Mafie

Paolo Borsellino – Piste, veleni e reliquie di Stato: quale verità su via d’Amelio 33 anni dopo?

Dopo più di tre decenni, le indagini sulle bombe vanno avanti in un clima denso di polemiche, veleni e rese dei conti. Tra piste preconfezionate e interrogativi mai approfonditi, la valigetta del magistrato è diventata un feticcio da omaggiare senza porre domande

Dice Giorgia Meloni che il popolo italiano ha il diritto di conoscere la verità sulla strage di via d’Amelio. Un’affermazione sacrosanta. È lecito, però, domandarsi a quale tipo di verità si riferisca Meloni. Da due anni, infatti, le indagini della commissione Antimafia, guidata dalla sua pupilla Chiara Colosimo, hanno imboccato una strada a senso unico sulle stragi. Palazzo San Macuto ha deciso d’indagare sulla morte di Paolo Borsellino concentrandosi soltanto sulla cosiddetta pista di Mafia e appalti.

Secondo questa ricostruzione, dietro alla morte del magistrato ci sarebbe il suo interesse per il dossier del Ros dei carabinieri, che puntava i riflettori sui legami tra Cosa Nostra, la politica e le imprese. Borsellino voleva indagare sulla Tangentopoli siciliana, una versione di Mani pulite shakerata dalla Piovra: un cocktail eplosivo. E molto pericoloso. I suoi colleghi, collusi e codardi, avevano altre idee: invidiosi e in malafede lo isolarano, esponendolo alla vendetta dei boss.

Questa è la pista da sempre preferita dal centrodestra. Il motivo? Ha almeno due pregi: mette sotto accusa i colleghi di Borsellino, ma pure i magistrati che lavorarono alla procura di Palermo negli anni successivi. Ed esclude automaticamente tutti gli altri filoni d’indagine: quella che punta i riflettori sull’entourage di Silvio Berlusconi, in passato sempre archiviata, ma anche quella che conduce all’estrema destra, cioè la cosiddetta pista nera. Oggi in Antimafia si combattono due fazioni: a dare le carte è ovviamente la maggioranza di governo, che spinge per individuare Mafia e appalti come l’unico movente segreto delle stragi. Una ricostruzione illustrata durante le prime audizioni della commissione da Fabio Trizzino, marito di Lucia Borsellino e avvocato anche degli altri figli del giudice assassinato, Fiammetta e Manfredi. Storici sostenitori della pista Mafia e appalti sono poi ovviamente Mario Mori e Giuseppe De Donno, gli ex carabinieri del Ros che furono autori del dossier. Uscito assolto da svariate accuse – dalla mancata perquisizione del covo di Totò Riina alla cosiddetta Trattativa Stato-mafia – sarebbe Mori il vero regista dell’indagine dell’Antimafia. Almeno secondo Report, che ha accusato l’ex generale di aver addirittura proposto i nomi di alcuni consulenti alla commissione. Ora, se fosse vero quello che sostiene la trasmissione di Sigrfrido Ranucci, sarebbe il caso che la presidente Colosimo si facesse consigliare da qualcun altro. E non solo perché dopo l’ultima assoluzione, Mori aveva annunciato l’intenzione di volersi mantenere in salute per veder “morire” tutti i suoi nemici: “Lo dico con odio“, aveva sottolineato. Oltre alle parole, infatti, ci sono le indagini. E l’ex generale è ancora sotto inchiesta a Firenze per le stragi del 1993. Ovviamente la presunzione d’innocenza vale per tutti, anche per lui. La sua presenza a San Macuto, però, può essere un boomerang per il centrodestra. Per esempio può capitare che – durante la sua audizione – Colosimo debba intervenire per redarguire due parlamentari del Pd, rei di aver chiesto all’ex generale un’opinione su via d’Amelio e le sue connessioni con le cosiddette “stragi continentali” di Cosa Nostra. Le bombe del 1993 sembrano essere un tabù per questa commissione, che ha deciso di lavorare solo sulla strage Borsellino, separandola dagli altri attentati degli anni ’90. Il risultato è che il botta e risposta a difesa di Mori ha esposto la presidente Colosimo addirittura ad accuse di “depistaggio istituzionale” da parte dell’opposizione.

Contestazioni arrivate anche dal senatore dei 5 stelle Roberto Scarpinato. Da mesi l’ex procuratore generale di Palermo cerca d’inserire nell’indagine della commissione alcuni elementi relativi alla cosiddetta pista nera. Si concentra sulla possibile presenza di Stefano Delle Chiaie, fondatore di Avanguardia Nazionale, in Sicilia nei giorni della strage di Capaci. Le bombe del 1992, dunque, potrebbero essere una coda della cosiddetta strategia della tensione. Non è un caso che alla vigilia delle stragi fosse comparso in Sicilia anche Paolo Bellini, un nero con tante facce e molteplici identità: estremista di Avanguardia Nazionale, killer con legami nel mondo delle istituzioni, di Cosa Nostra e della ‘Ndrangheta, è stato recentemente condannato per la strage di Bologna. La pista dei neofascisti, però, non sembra catalizzare troppo l’interesse della procura di Caltanissetta, anche se recentemente Salvatore De Luca, capo dei pm nisseni, ha dichiarato che il suo ufficio “non ha chiuso nessuna pista perché vi sono ancora delle indagini da approfondire”. Tra queste ultime anche quelle su Giuseppe Pignatone e Gioacchino Natoli, ex pm di Palermo, ora sotto inchiesta per favoreggiamento a Cosa Nostra: sono accusati di aver archiviato con troppa fretta una vecchia indagine, parallela a Mafia e appalti. È mentre parlava con Natoli che è stato intercettato Scarpinato, nel frattempo finito nel mirino della destra: vorrebbero allontanarlo dai lavori della commissione per un presunto conflitto d’interesse. Quale? Aver indagato su Mafia e appalti negli anni ’90, sui cosiddetti Sistemi criminali nei primi 2000 e quindi aver rappresentato la pubblica accusa al processo d’Appello sulla cosiddetta Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa Nostra nel 2021.

È in questo clima, fatto di polemiche, veleni e rese dei conti, che vanno avanti le indagini dell’Antimafia. Con questo metodo di lavoro che tipo di verità può venire fuori? Non è una domanda capziosa. Anche se è la pista preferita della destra e di Mori, infatti, Mafia e appalti è senza dubbio interessante e merita di essere ancora scandagliata, soprattutto in alcuni dei suoi sentieri meno battuti. Senza però cedere alla tentazione di riscrivere la storia: è vero che fino all’estate del 1992 le indagini sulla Tangentopoli mafiosa non avevano fatto il loro salto di qualità. Ma è anche vero che nei mesi e negli anni successivi furono decine i mafiosi, gli imprenditori e i politici finiti sotto inchiesta a Palermo. Anche i fratelli Buscemi, boss-imprenditori vicinissimi a Totò Riina, divenuti soci del gruppo Ferruzzi di Raul Gardini. Come è noto, il “Corsaro” di Ravenna fu trovato morto nella sua casa di Milano, nel settecentesco Palazzo Belgioioso, il 23 luglio del 1993, proprio lo stesso giorno in cui il pm Antonio Di Pietro lo aspettava al Palazzo di giustizia per interrogarlo. Da via d’Amelio era passato un anno esatto, dopo quattro giorni le bombe sarebbero esplose in via Palestro a Milano e nelle basiliche romane di San Giovanni in Laterano e San Giorgio in Velabro. Se fosse sopravvissuto, Gardini sarebbe finito sotto inchiesta per mafia? È possibile ipotizzarlo, anche se la storia non si può certo fare con i se. Di sicuro possiamo dire che due dipendenti di vertice del gruppo Ferruzzi furono condannati in via definitiva per concorso esterno e associazione mafiosa: Lorenzo Panzavolta e Giovanni Bini, al vertice della Calcestruzzi, cioè la prima produttrice di cemento d’Italia, che all’epoca era il primo Paese per consumo di calcestruzzo in Europa.

Insomma: anche se non decollarono subito, a un certo punto le indagini su Mafia e appalti a Palermo si fecero. Cosa Nostra decise di uccidere Borsellino a tappe forzate solo per bloccare il suo interesse per quel dossier? Può essere, anche se alcuni elementi spingono verso un’opinione diversa. Intanto bisogna sempre ricordarsi che Cosa Nostra non è stupida. Era ovvio che un’altra strage, a soli 57 giorni di distanza da quella di Capaci, avrebbe provocato la reazione dello Stato. Il dossier Mafia e appalti, tra l’altro, riguardava politici e imprenditori della Prima Repubblica: Riina, dunque, mise a rischio la sopravvivenza della sua organizzazione per proteggere un sistema moribondo, che stava per essere spazzato via da Mani pulite. Davvero un pessimo affare. Dando per assodato che la strage di via d’Amelio fu il frutto di una scommessa sbagliata del capo dei capi, resta ancora da capire cosa diavolo è successo dopo. Come è noto, infatti, le indagini su via d’Amelio furono depistate. Perché? Fu solo una decisione degli investigatori di allora per chiudere subito l’inchiesta? Il modo più veloce per offrire un colpevole all’opinione pubblica? Possibile, anche se è davvero difficile pensare che un’indagine come quella sulla strage Borsellino possa essere stata deviata in autonomia dagli investigatori. Davvero nessuno ai piani alti si accorse che l’allora procuratore di Caltanissetta, Giovanni Tinebra, affidò le indagini ai servizi di Bruno Contrada, violando la legge? Davvero nessuno ebbe nulla da obiettare quando il colpevole di via d’Amelio si materializzò in Vincenzo Scarantino, venditore di sigarette di contrabbando? In un Paese dove persino l’ultima delle nomine locali ha bisogno di uno sponsor, quindi, il più grande depistaggio della storia è stato fatto senza alcuna copertura politica. Anche perché quando l’inchiesta su via d’Amelio viene inquinata, politici e imprenditori della Prima Repubblica – cioè quelli coinvolti in Mafia e appalti che dovevano salvarsi con la morte di Borsellino – avevano ormai perso ogni potere: qualcuno era indagato, qualcun altro in galera, Gardini e Salvo Lima erano morti. Il depistaggio, dunque, è stato fatto per proteggere chi? Ex potenti ormai fuori dai giochi? Cui prodest?

Forse la commissione dovrebbe provare a rispondere a queste domande nelle sue indagini. Magari anche con l’aiuto dell’opposizione, che potrebbe spingere sul tavolo della maggioranza le vecchie dichiarazioni di Salvatore Cancemi. Secondo il pentito, durante le fasi preparatorie delle stragi Riina aveva parlato con “persone importanti” non affiliate a Cosa nostra. Chi? Cancemi non lo sapeva di preciso, ma fece una deduzione: “Io sapevo che aveva contatto con Berlusconi e Dell’Utri, quindi…”. Va subito detto che le indagini nate su queste dichiarazioni sono state sempre archiviate. Su Arcore, però, sono rimaste alcune nubi. Lo stesso Dell’Utri è ancora indagato per le stragi del 1993. Ed è il nome di Berlusconi quello che Borsellino fa al giornalista Gianluca Di Feo, arrivato a Palermo per chiedere informazioni su un giro di riciclaggio legato a Tangentopoli. È il 30 giugno del 1992, pochi giorni prima il magistrato era scoppiato a piangere davanti a due giovani colleghi, sostenendo che un amico lo avesse tradito. Al giornalista, invece, fa un ragionamento diverso: “Sono tanti gli imprenditori in grado di riciclare 10 milioni di lire, ma se devi riciclare 10 miliardi di lire gli imprenditori che possono farlo si contano sulle dita di una mano e uno di quelli che avrebbe questa capacità è Silvio Berlusconi. Bisogna guardare a figure come Berlusconi, che avrebbe le capacità economiche per fare questo tipo di operazioni”, sono le parole che avrebbe riferito Borsellino a Di Feo, come ha raccontato Marco Lillo sul Fatto Quotidiano. In quel 1992 non è la prima volta che Borsellino fa il nome di Berlusconi: lo aveva pronunciato anche due giorni prima di Capaci, quando rilascia un’intervista a due giornalisti francesi. Quella cassetta è un vero e proprio scoop, eppure andrà in onda molti anni dopo e solo a tarda notte: perché? Mentre indaga su Mafia e appalti, la commissione Antimafia potrebbe approfondire passaggi come questo. Anche solo per escludere definitivamente qualsiasi coinvolgimento di personaggi legati al mondo berlusconiano.

D’altra parte l’autore della strage di via d’Amelio è Giuseppe Graviano, ricco ed enigmatico boss di Brancaccio, che è pure il regista delle stragi del 1993. Dopo un quarto di secolo trascorso in cella in assoluto silenzio, il boss ha preso la parola durante un processo per sostenere di aver incontrato per tre volte Berlusconi, con il quale era in affari grazie agli investimenti miliardari compiuti dal nonno negli anni ’70. Graviano ha anche sostenuto che “imprenditori di Milano” non volevano fermare le stragi, senza mai chiarire il suo riferimento. Non esistono riscontri alle parole del capomafia, che non essendo un collaboratore di giustizia può ovviamente mentire. E infatti i legali di Berlusconi hanno sempre definito le sue dichiarazioni come diffamatorie. Fino a quando è rimasto in vita, però, l’uomo di Arcore non ha mai dato mandato di denunciare il boss per calunnia. Non varrebbe la pena cercare di capire per quale motivo l’assassino di Borsellino ha deciso di lanciare questi strani messaggi? Magari si potrebbe provare a chiederglielo. Certo, essendo Forza Italia parte di questa maggioranza, è difficile che ciò avvenga. Ma una parte dell’opposizione potrebbe almeno provare a sottoporre la questione all’attenzione della commissione.

Lo stesso lavoro, ovviamente, si può fare sull‘agenda rossa: il diario di Borsellino contiene probabilmente elementi fondamentali per individuare i mandanti delle stragi. La storia è nota: Borsellino su quell’agenda annotava spunti, confidenze e idee su chi aveva voluto la strage di Capaci. Quello trafugato nell’inferno di via d’Amelio è dunque un potente strumento di ricatto. Già ma per chi? Non certo per i boss di Cosa Nostra, conclamati colpevoli delle bombe. E d’altra parte non sono certo i boss che potevano rubare l’agenda, muovendosi nei meandri di via d’Amelio subito dopo la strage. Infatti i poliziotti, tra i primi ad arrivare sul posto, sostengono di aver visto “uomini in giacca e cravatta“, attorno alle auto ancora in fiamme. Chi erano questi uomini? “Avevano il tesserino dei servizi“, hanno raccontato i testimoni, spiegando che quei soggetti erano “interessati alla valigetta di Borsellino”. Forse la commissione potrebbe utilizzare i suoi poteri per ricostruire ogni secondo degli attimi successivi alla strage: perché non lo fa? Perché non recupera tutti i filmati e gli scatti realizzati in quel pomeriggio rovente per seguire il percorso compiuto dalla valigetta di Borsellino?

Ecco, almeno la borsa del magistrato, in effetti, sembra aver colpito l’attenzione della maggioranza. Da alcune settimane, la valigetta di Borsellino – ancora bruciacchiata dall’esplosione – è esposta in Transatlantico, dove ieri una delegazione di parlamentari è andata a “renderle omaggio“, come era scritto in un comunicato stampa. La borsa di Borsellino è diventata un feticcio da omaggiare, come una reliquia di un santo. Sembra una scena de L’Eroe imperfetto, il romanzo scritto da Sandra Rizza per raccontare come ormai nel nostro Paese la memoria civile si è trasformata in una vera e propria religione laica. Con tutte le controindicazioni che questo comporta. Se la valigia di Borsellino è una reliquia e allora vuol dire che su via d’Amelio non è più possibile fare domande: i cimeli dei santi, infatti, non possono essere omaggiati se si coltiva il dubbio. È sufficiente avere una cieca fede. Come ha scritto Gianni Barbacetto, però, è nella Chiesa Cattolica che le reliquie sono segni di vita oltre la morte, dunque simboli di speranza da adorare senza porsi interrogativi. Nel caso di Borsellino, invece, la borsa è l’emblema di una sconfitta: mani oscure l’hanno infatti svuotata dell’agenda rossa. Mani ancora oggi mai individuate, come sconosciuti sono rimasti i mandanti del depistaggio e i volti di chi ha voluto le stragi. L’esposizione della valigetta di Borsellino è dunque una celebrazione dell’ignoto, in un Paese pieno di buchi neri, con una storia fatta di bombe, bugie e vittime senza giustizia. Ha ragione Giorgia Meloni: il popolo italiano ha il diritto di conoscere la verità sulla strage di via d’Amelio. Già: ma quale verità?