Lavoro & Precari

“Sarebbero di più i lavoratori che ci perdono”, “bastano i contratti collettivi”. Meloni e le balle sul salario minimo: un fact checking

“Sarebbero di più i lavoratori che ci perdono“. Nonostante anche il mondo imprenditoriale riunito al forum Ambrosetti di Cernobbio abbia bollato come “una stupidagginequesta presunta controindicazione del salario minimo, Giorgia Meloni continua a ripetere da mesi lo stesso refrain. L’ha detto anche mercoledì sera, intervistata da Bruno Vespa a Cinque minuti su Rai 1. Il conduttore ha introdotto l’argomento ricordando come la premier abbia definito il minimo orario legale “una trappola per chi ha un reddito migliore”, lei ha confermato aggiungendo i soliti dati sulla contrattazione collettiva che dovrebbero dimostrare la correttezza del ragionamento. Che in realtà non è sostenuto da alcuna evidenza, anzi. Ecco un breve fact checking sulle frasi che in queste ore vengono rilanciate sui social da Fratelli d’Italia.

Chi ha cambiato idea – “Ci sarà qualche ragione se quelli che oggi dicono che il salario minimo è la soluzione migliore non lo hanno fatto quando erano al governo”, ha premesso Meloni, polemizzando con le opposizioni che in estate hanno presentato una proposta di legge unitaria incentrata su una soglia di 9 euro lordi all’ora (senza 13esima, Tfr e scatti). Vero: i governi di coalizione di Conte e quello di Draghi, sostenuto da una vastissima maggioranza bipartisan, non sono riusciti ad arrivare al risultato e in alcuni casi – vedi i tentennamenti dell’ex ministro del Lavoro Andrea Orlando – non hanno sostenuto fino in fondo la necessità di un minimo orario valido per tutti. Ma Fratelli d’Italia in fatto di incoerenza sulla materia non può certo dare lezioni: nel 2019 il suo deputato Walter Rizzetto aveva presentato una proposta di legge per introdurre un minimo orario nazionale, definendolo “un efficace strumento per garantire una maggiore equità e tutelare la posizione di debolezza del lavoratore nell’ambito del rapporto di lavoro”.

La copertura dei ccnl – “Noi abbiamo il 97% dei lavoratori coperti da un contratto siglato almeno da uno dei 3 principali sindacati”, ha detto la leader di FdI. Il numero è formalmente corretto: tra i mille contratti depositati al Cnel, i circa 200 firmati dai confederali risultano (all’Inps) essere applicati alla stragrande maggioranza dei lavoratori. Ma si tratta almeno in parte di un’illusione ottica: come ha fatto notare l’economista Ocse Andrea Garnero, non è detto che il contratto comunicato dall’azienda all’istituto di previdenza sia quello effettivamente applicato al dipendente per quanto riguarda la parte economica. I contratti pirata, insomma, sono molto più diffusi di quanto suggeriscano le statistiche ufficiali.

I lavoratori sotto i 9 euro l’ora – Secondo Meloni “l’82% (dei lavoratori ndr) ha un salario superiore ai 9 euro della proposta di legge”. Vero, ma è evidente che quella percentuale in apparenza elevata è del tutto insufficiente: il 18% corrisponde 3,6 milioni di persone, calcola l’Istat. Un dato quasi identico a quelli Inps-Uniemens stando ai quali 3,59 milioni di dipendenti privati non raggiungono quella cifra. Aggiungendo anche operai agricoli e lavoratori domestici si arriva a 4,5 milioni. È ben noto, del resto, che i ccnl firmati dai sindacati più rappresentativi vengono spesso rinnovati con estremo ritardo e a volte – vedi il contratto della vigilanza privata – hanno paghe da fame, più volte giudicate contrarie ai principi di proporzionalità e sufficienza previste dalla Costituzione. E secondo uno studio della Fondazione consulenti del lavoro – certo non nemica del governo – oltre un terzo dei 61 principali contratti collettivi nazionali firmati da Cgil, Cisl e Uil prevede minimi retributivi sotto i 9 euro all’ora.

Il salario minimo peggiorerebbe le cose? – “Se metto un salario minimo per legge diventa aggiuntivo o sostitutivo?”, si è chiesta retoricamente Meloni dopo aver messo in fila quei dati parziali o sbagliati. La risposta è implicita, secondo la leader di Fratelli d’Italia: “Sarebbero di più i lavoratori che ci perdono”. L’affermazione è smentita dalle evidenze empiriche raccolte nei maggiori Paesi che hanno adottato un minimo legale: 22 su 27 nella Ue e altri 140 nel mondo, tra cui Stati Uniti, Gran Bretagna, Brasile. È falso, come è facile intuire, che in seguito all’introduzione di un minimo orario le retribuzioni più alte finiscano per essere ritoccate al ribasso allineandosi al minimo. Al contrario, come dimostra anche uno studio dell’Ocse, quello che accade è esattamente l’opposto: esiste un (modesto) effetto spillover che fa aumentare anche i livelli più alti della distribuzione salariale. Del resto basterebbe definendo “non condivisibile la tesi espressa da alcune organizzazioni sindacali, le quali affermano che l’istituto in questione avrebbe effetti negativi, poiché porrebbe le basi per una diminuzione dei salari nel medio termine. Riconoscere un salario minimo, invece, è un provvedimento necessario per sostenere i lavoratori più marginali e riconoscere il lavoro come strumento di dignità”.

Il ruolo del Cnel – “Per quelli che guadagnano meno”, ha poi detto la presidente del Consiglio rispondendo a Vespa, “ho chiesto al Cnel di studiare in 60 giorni una soluzione senza compromettere quelli che stanno sopra” i salari più bassi. A dire il vero l’11 agosto, annunciando di aver passato la palla al Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro – notoriamente contrario al salario minimo – Meloni aveva parlato di un “confronto molto ampio”, “un ragionamento complessivo sul tema del lavoro povero e di salari adeguato”. Non certo di un mandato ristretto, mirato al miglioramento delle condizioni di poche persone. A meno che la premier non volesse solo prendere tempo per poi arrivare alla conclusione, con il supporto dell’organismo guidato da Renato Brunetta, che sia sufficiente un intervento limitato a quel 3% di lavoratori ufficialmente non coperto dai contratti principali. O a una platea ancora più piccola.