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In Spagna Felipe VI regna da nove anni. Ma il sostegno alla Repubblica si fa sempre più forte

Nove anni fa, il 19 giugno 2014, salì al trono Felipe VI, attuale re di Spagna, figlio del re Juan Carlos che era stato scelto dal dittatore Franco come delfino e che, dopo anni di regno, si risolse ad abdicare per uno scandalo legato ad alcuni reati fiscali.

In quei giorni si moltiplicarono le manifestazioni in favore della Repubblica, poi diminuite e totalmente dimenticate anche alla luce della sequela di referendum di richiesta di indipendenza da parte della Catalogna. Dal canto suo re Felipe, nel 2015, fece coniare una moneta celebrativa con la propria effigie per celebrare i “70 anni di pace” dalla fine del secondo conflitto mondiale, scatenando le polemiche, dato che quel periodo include buona parte della dittatura (1939-1975).

Purtroppo in Spagna resiste ancora un residuo della retorica franchista, sulla quale poi durante gli anni della Transizione è nata la Spagna moderna: l’idea cioè che una degenerazione della democrazia non porti al rischio di vivere una dittatura, ma una guerra civile, com’è stata quella degli anni 1936-1939 che ha aperto le porte a 36 anni di franchismo. La retorica è chiara: il governo di Franco era “necessario” a garantire gli equilibri tra le “due Spagna” e a soffocare qualunque tentativo di vittoria del “germe comunista” (il regime fu sempre sostenuto dagli Usa negli anni dopo la guerra mondiale proprio in chiave anticomunista). Il vero spauracchio da tenere lontano era semmai il rischio di una nuova e ineludibile guerra civile.

Anche nel 2021, davanti al tentativo del governo di modificare la legge sulla Memoria perché i crimini del franchismo potessero essere in qualche modo presi in considerazione (impossibile giudicarli a causa della legge di Amnistia del 1977, che con un colpo di spugna aveva condonato i delitti avvenuti durante gli anni di regime), la destra è insorta: “Così saltano gli accordi della Transizione“. Resiste insomma l’idea che il passato non vada toccato e che solo la monarchia, che davanti a un tentato golpe nel 1981 confermò lo statuto democratico della Spagna, possa garantire l’unità e la coesione del Paese.

Per fortuna qualche passo in avanti è stato possibile: solo dalla fine del 2022 l’apologia di franchismo è reato e si stanno indagando i delitti di lesa umanità, ma a partire dal 1978, sempre per l’Amnistia di cui sopra; e solo nel 2023 il corpo di José Antonio Primo de Rivera, ideologo del franchismo, è stato spostato dal mausoleo del Valle de los Caidos, dove riposava insieme a Franco circondato dalle fosse comuni piene dei corpi dei prigionieri di guerra che furono costretti ad erigerlo.

Anche alcune personalità note, come l’attore Javier Bardem, stanno esprimendo pubblicamente il loro sostegno alla repubblica, vista appunto come opposizione al dualismo monarchia-regime.

Pur in presenza di un sostegno popolare forte alla Repubblica, però, il processo per arrivare a cambiare l’ordine dello Stato sarebbe comunque arduo. In primo luogo, ognuna delle due Camere dovrebbe esprimersi a favore della modifica costituzionale per due terzi dei rappresentanti. Dopodiché, esse dovrebbero sciogliersi e dopo le nuove elezioni la votazione dovrebbe essere ripetuta dalle nuove Camere. Se tutto venisse confermato, il referendum popolare sarebbe l’ultimo step.

Chiaro che con queste premesse la forma dello Stato è blindata. Ma davanti alle notizie che hanno interessato il re emerito (la caccia agli elefanti mentre il Paese soffriva una crisi economica senza precedenti, i casi di corruzione e riciclaggio, l’autoesilio ad Abu Dhabi in cui si trova ancora oggi) e che hanno macchiato la reputazione dell’istituzione monarchica, tutto è possibile. Anche che “le due Spagna”, da questo punto di vista, si trovino concordi a voler cambiare il corso della storia.