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Il soccorso del centrodestra alle imprese: vuol recuperare lo sconto fiscale che aiuta pochi big e abolire il meccanismo contro l’evasione Iva

Gli emendamenti alla delega: Lupi chiede di riesumare il patent box costato 4,5 miliardi senza portare - secondo il Mef - alcun effetto economico positivo

Quell’agevolazione ha sottratto miliardi di gettito allo Stato e secondo il ministero dell’Economia non ha avuto alcun effetto positivo in termini di occupazione, investimenti in ricerca o miglioramento della redditività. Un track record fallimentare che non è bastato per scoraggiare Maurizio Lupi: tra gli emendamenti alla delega fiscale presentati dal leader di Noi moderati ce n’è anche uno che chiede di riesumare il patent box. Cioè la detassazione del 50% sui redditi che derivano dall’uso commerciale di brevetti, marchi e altri beni immateriali protetti da proprietà intellettuale, cancellata da Draghi a fine 2021 tra gli strali di Confindustria. Tra i maggiori partiti di maggioranza anche la Lega sembra molto attenta alle richieste degli industriali: come da richieste dei costruttori dell’Ance propone di abolire lo split payment, il meccanismo contabile che prevede il versamento dell’Iva da parte della pa direttamente all’erario senza passare per le casse dei fornitori. E che negli ultimi anni ha ridotto di molto l’evasione di quell’imposta.

Il regime agevolato del patent box è stato introdotto in Italia nel 2014 dal governo Renzi, di cui Lupi era ministro delle Infrastrutture, sulla scia di Belgio, Cipro, Gran Bretagna, Lussemburgo e Olanda. L’obiettivo dichiarato era promuovere gli investimenti in ricerca e sviluppo, ma diversi lavori empirici su altri Paesi europei sono arrivati alla conclusione che i patent box non hanno impatto positivo su innovazione e ricerca e sviluppo: sono solo un incentivo a trasferire brevetti negli Stati che offrono condizioni più favorevoli. Che sia andata così anche in Italia alla fine l’ha ammesso anche il Tesoro, rispondendo nel novembre 2021 a un’interrogazione parlamentare di Luca Pastorino (LeU): il sottosegretario leghista Federico Freni ha spiegato che “per quanto riguarda l’esistenza di eventuali effetti economici positivi prodotti dal regime agevolativo in argomento, in base ai dati a disposizione dell’Agenzia (delle Entrate ndr), gli stessi non sembrano essersi verificati quantomeno in termini di incrementi occupazionali, aumento degli investimenti in attività di ricerca e sviluppo, creazione di nuovi beni immateriali, miglioramento della redditività operativa e finanziaria delle imprese”.

Un bel risultato a fronte di un costo di 337 milioni nel 2017, 700 nel 2018, oltre 1,5 miliardi nel 2019 e 2 nel 2020, stando ai dati di Mef e Corte dei Conti. Almeno 4,5 miliardi di minor gettito, dunque, andati a vantaggio di chi? La magistratura contabile nel Rapporto 2020 sul coordinamento della finanza pubblica ha ricostruito, sulla base delle dichiarazioni dei redditi 2017, che della misura hanno fruito “circa 1300 imprese, di cui 1200 società di capitale (sulle oltre 800.000 attive in quell’anno)”: una piccola minoranza di grandi aziende. Tra le altre Ferrari, Campari, Diasorin, Luxottica, Prysmian e molti brand della moda. Non è un caso, insomma, se il presidente di Confindustria Carlo Bonomi a fine 2021 ha preso come un affronto personale la sostituzione della misura con una pur generosa deduzione dei costi di ricerca e sviluppo accompagnata da una sanatoria per chi avesse indebitamente utilizzato il vecchio credito d’imposta. Le sue lamentele hanno trovato ascolto bipartisan in Parlamento e alla fine il governo Draghi ha concesso un aumento della deduzione dal 90 al 110%, ma escludendo i marchi che erano stati ripescati in extremis. Il numero uno degli industriali è rimasto comunque scontento e ora Lupi, insieme ad altri deputati di Noi moderati, gli tende la mano chiedendo la reintroduzione del vecchio regime.

I leghisti Giulio Centemero, Laura Cavandoli e Alberto Bagnai – autori come ha raccontato Il Fatto pure dell’emendamento a favore dei contribuenti che firmano il concordato preventivo e poi commettono violazioni fiscali non lievi – entrano dal canto loro a gamba tesa su uno dei meccanismi più efficaci contro l’evasione Iva. Si parla dello split payment, la “scissione dei pagamenti” per il versamento dell’Iva sui servizi resi alle amministrazioni pubbliche e alle società quotate introdotta nel 2015 (governo Renzi) e ampliato nel 2017. Consiste nel fatto che pa e quotate versano al fornitore solo l’imponibile mentre girano l’imposta sul valore aggiunto direttamente all’erario. Insieme al reverse charge (meccanismo simili che si applica tra privati), stando all’ultima Relazione sull’economia non osservata e sull’evasione ha contribuito a ridurre il tax gap sull’Iva tra 2015 e 2020 dal 26,6 al 20,7%. Cioè da 34,9 a 25 miliardi. Il governo Meloni in realtà non ha la minima intenzione di cancellarlo: il 9 maggio il Mef ha fatto sapere di essere in attesa del via libera Ue al rinnovo dell’autorizzazione ad applicarlo, in scadenza a fine giugno. L’emendamento, secondo cui i due meccanismi “sottopongono le imprese a ingenti oneri amministrativi dovuti alla continua incertezza del loro perimetro oggettivo di applicazione e sugli effetti delle sanzioni erogate in caso di errata applicazione”, è dunque solo un “segnale di fumo” all’Ance. Che in audizione sulla delega ha definito la proroga una “doccia fredda” lamentando che toglierà liquidità alle imprese “coinvolte nel difficile compito di realizzare i lavori del Pnrr“.

Strizzano invece l’occhio ai commercianti le proposte di Noi moderati e Fratelli d’Italia sui costi legati ai pagamenti elettronici. Archiviata dopo la débâcle di dicembre la speranza di azzerare le multe per chi non accetta le carte per le piccole transazioni, i due partiti chiedono di agire per via fiscale. Secondo Lupi occorre dimezzare la tassazione degli introiti arrivati tramite pos “con conseguente aumento della stessa percentuale per gli intermediari finanziari”. Rampelli, Congedo e altri meloniani pensano invece ad “appositi strumenti agevolativi per assicurare la gratuità delle transazioni effettuate mediante carte di pagamento” da individuare “previo confronto con l’Associazione bancaria italiana e la società Poste italiane”. Un’ammissione del fallimento del tavolo governativo che avrebbe dovuto trovare un accordo con gli intermediari finanziari per tagliare le commissioni.