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Attanasio, dai documenti mai forniti all’ombra delle torture sugli imputati: i punti oscuri del processo congolese che sta per concludersi

È stata fissata per il 1 marzo l'ultima udienza del procedimento a carico di sei persone, di cui una latitante, considerate gli esecutori materiali del triplice omicidio in cui persero la vita l'ambasciatore italiano, il carabiniere Iacovacci e l'autista Milambo. Ma tra l'ostruzionismo di Kinshasa verso Roma, interrogatori ritrattati e documenti bollati come "falsi", sono diversi i punti ancora da chiarire sul filone congolese del caso Attanasio

Imputati che sostengono di trovarsi in carcere nelle ore del triplice omicidio, versioni contrastanti, l’ombra delle torture sulle testimonianze degli accusati e dossier mai forniti da Kinshasa alle parti civili. C’è tutto questo, oltre alle difficoltà di reperire informazioni ufficiali e affidabili, dietro al caos che si è scatenato sul processo congolese ai sei imputati, di cui uno latitante, per l’uccisione dell’ambasciatore italiano Luca Attanasio, del carabiniere di scorta Vittorio Iacovacci e dell’autista del Programma alimentare mondiale Mustapha Milambo. Nonostante tutto questo, il 1 marzo è stata convocata l’udienza finale, dopo la quale verrà ufficializzata la ‘verità’ di Kinshasa sull’imboscata che il 22 febbraio 2021 provocò la morte dei due italiani e dell’autista congolese.

L’ombra delle torture
Sono sei le persone a processo nella Repubblica Democratica del Congo per l’attacco al convoglio del Pam in cui persero la vita Attanasio, Iacovacci e Milambo. Sei come i componenti del commando individuati anche dai magistrati di Roma che hanno chiesto il rinvio a giudizio per il vicedirettore dell’Agenzia Onu nel Paese, Rocco Leone, e il suo responsabile della sicurezza, Mansour Rwagaza. Sono però soltanto cinque quelli finiti alla sbarra a Kinshasa: uno di loro, colui che è considerato il capo della banda, Amos Mutaka Kiduhaye alias Aspirant, ha fatto perdere le proprie tracce.

Le accuse nei loro confronti, dopo gli arresti avvenuti in momenti diversi, si basano soprattutto sulle confessioni raccolte nel primo interrogatorio dagli inquirenti congolesi. Confessioni immortalate in vari video in cui si vedono gli imputati Bahati Kiboko, Murwanashaka Mushahara André, Issa Seba Nyani, Amidu Sembinja Babu e Marco Prince Nshimimana ammettere le proprie responsabilità, con quest’ultimo che è stato indicato da più di un membro del commando come colui che ha premuto il grilletto del Kalashnikov che ha ucciso Attanasio e Iacovacci. Testimonianze presto sconfessate dai diretti interessati. Il motivo: “Sono state estorte con la tortura”.

Ed è proprio sull’accertamento di queste accuse che si sono concentrate le ultime udienze di un processo basato quasi esclusivamente su ammissioni poi ritrattate. Dall’esame dei filmati, secondo fonti della Farnesina sentite da Ilfattoquotidiano.it, non emergerebbero però evidenze che facciano pensare a delle violenze, anche per la “calma” con la quale gli uomini avrebbero ammesso le proprie responsabilità. Non sono d’accordo gli avvocati della difesa, secondo i quali sono evidenti invece i segni sulla faccia di uno degli imputati.

Il mistero sulla carcerazione di Kiboko
Non ci sono solo le accuse di tortura ad alimentare i dubbi sullo svolgimento del processo. Ne è un esempio il caso di Bahati Kiboko, uno dei sei imputati. L’uomo sostiene di aver passato in carcere, a Goma, le settimane precedenti al triplice omicidio e di essere stato liberato solo nella mattinata del 22 febbraio 2021, proprio mentre si stava compiendo l’assalto al convoglio del Pam nel quale viaggiavano le tre vittime. A sostegno della sua versione, che renderebbe impossibile per l’accusa collocarlo sul luogo dell’agguato, i suoi legali hanno presentato, ormai diverse settimane fa, un documento carcerario. Documento che, però, l’accusa ha ritenuto essere falso, chiedendo di poter ricevere il dossier riguardante l’imputato dalla prigione della città del Nord Kivu. Se così fosse, si tratterebbe di una strategia difensiva disastrosa, con l’imputato esposto dal proprio avvocato a una pesante smentita.

È a questo punto che la vicenda, secondo quanto raccolto da Ilfattoquotidiano.it, imbocca una strada tortuosa. Secondo quanto riferito da fonti della Farnesina, il Tribunale di Kinshasa non ha richiesto la documentazione sulla scarcerazione di Kiboko direttamente alla prigione di Goma, ma ha deciso di delegare l’analisi del dossier al tribunale della città capoluogo del Nord Kivu: “È stato posto un quesito formale al Tribunale di Goma che ha trasmesso una relazione scritta in proposito redatta sulla base delle risultanze dell’esame dei registri del carcere di Goma – dicono – In udienza ne è stata data lettura e il documento è stato incluso nel fascicolo e consegnato ai legali della difesa”. Questo documento, concludono, proverebbe che la scarcerazione di Kiboko non è datata 22 febbraio 2021, bensì un mese prima, il 22 gennaio.

Ciò che risulta strano, però, sono le modalità con le quali sì è arrivati a questa conclusione. Prima di tutto, non si capisce la necessità di incaricare il Tribunale locale di fornire una relazione alla Corte della capitale basata su un dossier ufficiale riguardante un detenuto, quando la verifica delle affermazioni di Kiboko sarebbe potuta avvenire semplicemente ottenendo la documentazione del carcere. Inoltre, come in Italia, anche in Rdc al momento della liberazione di un detenuto viene prodotto un provvedimento di scarcerazione che deve essere controfirmato dal diretto interessato. È questo l’unico documento in grado di togliere ogni dubbio sulla veridicità o meno delle dichiarazioni dell’imputato. Ma non è chiaro se questo sia stato allegato alla relazione inviata da Goma.

L’ostruzionismo del Congo
Tutto il procedimento, che vedrà la sua conclusione il 1 marzo, in attesa della decisione definitiva della Corte, ha fin dall’inizio fatto emergere anche l’ostruzionismo delle istituzioni congolesi nei confronti dello Stato italiano e della famiglia Attanasio. La Farnesina, così come i genitori dell’ambasciatore, hanno deciso di costituirsi parte civile nel processo. Questa mossa, oltre a renderli un soggetto direttamente coinvolto, aveva lo scopo di portare all’acquisizione di tutta la documentazione per conoscere su quali elementi si basa l’accusa nei confronti dei sei imputati. Elementi che potrebbero essere preziosi anche in caso di un eventuale rinvio a giudizio per Leone e Rwagaza a Roma. Ma il fascicolo, nonostante le richieste, non è mai stato consegnato né allo Stato italiano né ai legali della famiglia. Come spiega a Ilfattoquotidiano.it l’avvocato Rocco Curcio, che rappresenta i genitori di Attanasio, più volte le autorità congolesi sono state sollecitate affinché fornissero tutta la documentazione riguardante il processo ai sei imputati, ma le richieste non hanno avuto esito positivo. Anche per questo, il legale si è rivolto direttamente al governo, nello specifico al sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano (che non ha risposto alla richiesta di chiarimenti da parte del Fatto.it): “Mantovano mi ha assicurato che se avessero ricevuto la documentazione da Kinshasa mi avrebbero informato e me l’avrebbero inviata – racconta a Ilfattoquotidiano.it – È passato più di un mese e mezzo da quella promessa, ma ancora non abbiamo ricevuto niente. Dicono che dal Congo non è arrivato alcun dossier”. Una questione più politica che legale: di fronte a un governo che fa ostruzionismo, come quello della Repubblica Democratica del Congo, è necessario che la controparte italiana faccia valere il suo peso internazionale in nome di un diritto che in questo momento le viene negato. Gli sforzi compiuti, evidentemente, non sono ancora sufficienti.

Twitter: @simamafrica e @GianniRosini