Cinema

The Northman, il nuovo film di Robert Eggers non ha né appeal né hype

Il regista di The witch e di The lighthouse ha confezionato un film che staziona inespresso, impalato, impantanato, su una staticità che si vorrebbe vendere come profondamente autoriale ma che è banale posa ghignosa e superficiale

“Ho dei parenti alle Orcadi”. C’è un momento, e siamo verso la fine, di The Northman in cui abbiamo riso senza accorgercene (ma se ne sono accorti i vicini di poltrona). Complice la mancanza di una tensione che si prolunga fino al fondo del bicchiere di sangue e budella che Robert Eggers (The witch, The lighthouse – c’è sempre l’articolo eh?) getta qua e là come un timido acido Pollock nell’oscura tavolozza del film (prima che ci dimentichiamo c’è anche un po’ del Gunnar Fisher de Il settimo sigillo nel bianco e nero serale), quando Amleth (Alexander Skarsgard) sale su una barcozza e spiega all’amata Olga (Anya Taylor-Joy) che dopo anni di schiavitù barbara e animalesca, alle Orcadi zio e zia, ma anche che so un cugino, possono accoglierli familiarmente, non si può che sghignazzare. Perché la battuta (sarà il doppiaggio italiano?) mostra tutta quella inverosimiglianza strutturale da vorrei ma non mi capirete, tanto ambiziosa quanto inconcludente, che questo film brutale, anodino, granguignolesco, racchiude in quasi tre ore di saga nordica pittata à la page con i riferimenti shakespeariani.

Andiamo di sinossi. Facciamo attorno all’anno mille. Profondo nord Europa. Dopo che il padre ferito, il re Aurvandill (Ethan Hawke) lo ha candidato ritualmente (attenti a William Dafoe schizzato che appare nella grotta) alla successione, al piccolo Amleth non resta che assistere all’omicidio paterno da parte di suo fratello, zio Fjolnir (Claes Bang, l’interprete danese di The Square) e all’accoppiamento di zio con mamma Gundur (Nicole Kidman, poi parliamo anche di come s’è ridotto il viso di Nicole). Ovviamente Fjolnir non ha intenzioni ragionevoli con il nipote, pur accoppiandosi con la cognata, tanto che Amleth è costretto a fuggire, piccolo piccolo, su un barchetta in solitaria. Tornerà sullo schermo, facciamo una quindicina d’anni dopo, tutto bello muscoloso e gonfio, ringhiando e ululando come un lupo, in compagnia di altri ferocissimi guerrieri mezzi ignudi che conquistano villaggi e fortificazioni di poveri cristi. Amleth carpisce da una chiacchiera altrui l’ubicazione del nuovo piccolo regno di zio Fjolnir, si finge schiavo tra gli schiavi e finisce da passeggero a navigare lontano lontano (dovremmo essere arrivati in Islanda) dove finirà a lavorare come schiavo proprio alle dipendenze di zio, di mamma Gundur e dei suoi vichinghi sgherri.

La vendetta verrà servita fredda e dilatata, modello spiriti maligni che agiscono nel buio della notte, anche con l’aiuto dell’altra schiava Olga – definita in un altro momento ahinoi esilarante “con i capelli di una valchiria su una troia slava”. Ora, è chiaro che Eggers, allo script con lo scrittore e poeta islandese Sjon, tenta di infiltrare la dimensione epica avventurosa più classica con quella mistery horror a cui ci ha abituati nei film precedenti (soprattutto The witch) a cui si aggiunge un ulteriore cruda realistica quotidianità del tempo. Nasi spappolati, eviscerazioni, teste tagliate, botte, scotennamenti e ferite mostruose che fanno il paio ad una mancanza di empatia e di relazionalità tra protagonisti. Nel senso che Eggers concentra ogni sforzo creativo sul piano evocativo, lasciando quello descrittivo agli sfondi sporchi e agli accenni a pratiche bizzarre (come un distruttivo e sanguinoso gioco di squadra tra il cricket e il rugby). Quindi la sensazione è come se dall’alto cadesse tutto in scena (in che punto della capanna metto il cagnaccio, cosa faccio tenere in mano allo schiavo, come faccio morire taluno o tal altro) e lo si posizionasse in scena, e lo si inquadrasse, in maniera anticonvenzionale ed eccentrica per orientarci verso significati misteriosi, reconditi, di terrore e violenza che però oltre a ripetersi in una espansa scena madre non sortiscono mai verso un vero e proprio climax.

The Northman è un film che staziona inespresso, impalato, impantanato, su una staticità che si vorrebbe vendere come profondamente autoriale ma che è banale posa ghignosa e superficiale. Non basta il pube della Taylor-Joy o le chiappe di Skarsgard a risollevare (non soltanto) gli animi. Figuriamoci le sequenze oniriche fantastiche tra oracoli e valchirie che ricordano l’estetica di un Terry Gilliam, versione Monty Python, e i momenti più “sperimentali” de La storia infinita (peraltro bellissimo film). In The Northman non c’è ciccia, non c’è appeal, non c’è hype, e manca tanta incommensurabile passione per il cinema. Sul terrificante viso della Kidman si potrebbero fare mille battute o un documentario educativo sui danni della chirurgia estetica. Possiamo però dire che in alcuni momenti, e in precise inquadrature, per non dire nel monologo impazzito da filodrammatica in sotto sotto finale, la Kidman risultava a seconda della luce e dell’ombra sul viso sia Giovanna Ralli che Angela Lansbury, ma non la Kidman che conoscemmo in Cuori ribelli o in Giorni di tuono.