Lavoro & Precari

La tecnologia per il lavoratore può essere un ostacolo (quando non una minaccia)

di Carmelo Zaccaria

Nel monologo finale della Vita di Galileo, Bertolt Brecht fa dire al famoso astronomo: “Credo che la scienza abbia come unico scopo quello di alleviare la fatica dell’esistenza umana”. Tuttavia l’introduzione di novità scientifiche ha sempre avuto un impatto traumatico sulle dinamiche del mondo del lavoro, modificando prestazioni, generando nuove competenze, disorientando, almeno inizialmente, i comportamenti delle persone. La scienza moderna poi, dal digitale all’intelligenza artificiale, ha introdotto nuove forme di lavoro, prevedendo ritmi e distribuzione di orari che in teoria dovrebbero rendere meno gravosa l’attività umana. Un auspicio, questo, non sempre avveratosi.

Ad esempio, il sistema di lavoro part-time reso possibile, sia pur indirettamente, dal progressivo sostegno di mezzi tecnologici è stato propagandato come strumento che avrebbe dovuto incrementare l’occupazione e favorire l’inserimento delle donne nel mondo del lavoro, invece ha, nel complesso, ampliato le differenze economiche e lo status sociale di genere, diventando, alla lunga, un meccanismo di pressione e di discriminazione, utilizzato dalle imprese per gestire problematiche interne, talvolta per isolare i lavoratori meno centrati sul business a cui affidare lavori meno qualificati e, quindi, minori retribuzioni e riconoscimenti.

Il passaggio dal telegrafo alla mail ha permesso il diffondersi dello smartworking, che ha avuto una accelerazione improvvisa per gli effetti della pandemia. Questo processo ha riscontrato notevole interesse nelle aziende, sebbene non tutte fossero obbligate a farlo, tanto da arrivare a quasi dieci milioni di persone coinvolte in poco più di un anno. Per contro, gli effetti sul lavoratore potrebbero rivelarsi meno entusiasmanti.

Lavorare “a casa” comporta senz’altro una serie di vantaggi, a partire da una sostanziale conciliazione tra lavoro e vita privata. Inoltre, si riducono i costi del pendolarismo, si può decidere in autonomia come meglio gestire il proprio orario di lavoro, sicuramente si inquina meno e si mangia cibo più sano. Per un numero consistente di casi, però, costretti ad abbandonare la usuale postazione di lavoro in azienda, potrebbe significare dover rinunciare ad alcune aspettative individuali di carriera e di realizzazione personale. In prospettiva svolgere il lavoro da remoto riduce il percorso di avanzamento professionale all’interno di una azienda, proprio per il venir meno di quella catena insostituibile di apprendimento e di maturazione che si ottiene attraverso il linguaggio espressivo dei corpi.

Il confronto anche fisico con i colleghi, che a volte riteniamo fastidioso, alleggerisce lo stress e dà sicurezza, oltre ad aiutare a “fare squadra”. L’emozione che suscita l’interazione umana non può essere trasmessa attraverso una call. Lo smart working, invece, rende la prospettiva di contatto fisico superflua, creando una polarizzazione del lavoro per cui alcuni scontano questa privazione in termini di competenza e preferiscono alla lunga farsi da parte, finendo ingabbiati dentro incarichi sempre più marginali.

Oltretutto lavorare da casa rende di fatto la persona sempre iperconnessa, ininterrottamente disponibile, costretto a rapportarsi mentalmente a “ciclo continuo”, in un’attesa solitaria e frustrante di un clic, altalenando picchi di ansia emotiva con momenti di inedia opprimente.

Permane poi il rischio di non riuscire a porsi alcun limite di tempo per lo svolgimento del compito assegnatogli, finendo per lavorare di più. Il tempo diventa tiranno quando si è inclini a soddisfare nel più breve tempo possibile la prestazione, magari lavorando anche di sera, nei ritagli di tempo, rinunciando così a provvedere a se stessi, assorbiti e prigionieri del lavoro. La tecnologia, quando non serve a migliorare la vita degli individui e ne deturpa l’innata socialità, trasformandoli in “lavoratori estremi”, finisce per diventare non solo un ostacolo ma anche una minaccia.

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