Diritti

Eutanasia, il libro di Flores d’Arcais è una lucida riflessione sul potere di decidere per sé

La sentenza della Corte costituzionale è attesa per la serata: la legge che colpisce l’aiuto al suicidio sta per essere abolita. Non ci saranno sorprese, perché un codice penale ormai datato, intellettuali coerenti, e l’opinione pubblica più sensibile spingono in questa direzione. Da tempo, sul tema, voce attenta è Paolo Flores d’Arcais e – in Questioni di vita o di morte, Einaudi – ne parla con estrema lucidità.

Che cos’è il potere? Qual è la sua vocazione? In tanti, da Platone a Michel Foucault, hanno posto domande simili e la filosofia mostra che il potere “si dice” e si esercita in molti modi: Flores d’Arcais agita anche quest’argomento: “Il potere ha vocazione a diventare assoluto… e da sempre mira ad esercitarsi sul sesso, sulla nascita, sulla morte” (p. 124). Sono le battute finali del libro e, a ben vedere, la giusta chiave per coglierne il senso: il direttore di MicroMega ha scritto un’apologia filosofica del diritto all’eutanasia, e, nello stesso tempo, un’analisi lucida di tecniche (e inganni) messe in atto dal potere – non solo religioso – per limitare il diritto sulla nostra vita: “una prava volontà di potere impedisce che a ciascuno di noi sia risparmiato un fine vita colmo di dolore” (p. 11).

Il testo è coerente e pone/anticipa domande su cui la Corte costituzionale ha certamente discusso: “A chi appartiene la tua vita, amico lettore, a te o a me?” Ognuno decida, liberamente, della sua vita e della sua morte. È l’incipit di tesi svolte “logicamente”, “esistenzialmente”, “filosoficamente”, in un confronto serrato col mondo cattolico (pp. 85-120), per denunciare – tra l’altro – “la canagliesca amalgama ecclesiastica” dell’eutanasia liberamente scelta con quella orrenda imposta dal nazismo (p. 87).

È logico Flores: che significa “bene indisponibile”? Cosa nasconde questa formula civilistica? “A chi in concreto consegna la disponibilità della tua vita l’astratta indisponibilità giuridica della tua vita?” (p. 18). E ancora: è errato appellarsi alla religione; “nella sfera pubblica la volontà di Dio si esprime sempre per bocca di un uomo, è sempre la volontà di un uomo” (p. 29).

È così. E tuttavia, leggendo il libro si constata che proprio a Dio molti – a corto d’argomenti logici – s’aggrappano: “La vita e la morte appartengono al Signore, Lui solo ne può disporre”, ripetono di fronte alle sofferenze di un malato terminale. È giusto? “Il diritto alla vita – scrive il nostro – non può essere la condanna a vita, se per me il vivere è diventato tortura” (p. 30).

Molti sono gli esempi presenti nel testo, dal caso Lucio Magri al caso Welby di cui si cita la lettera inascoltata al Presidente Giorgio Napolitano: “Il mio corpo non è più mio… se fossi svizzero, belga o olandese potrei sottrarmi a questo oltraggio estremo ma sono italiano e qui non c’è pietà” (p. 53). La vita ci appartiene, perché mai dovremmo sottometterci a una Chiesa a un potere politico? – si chiede Flores.

Eppure è quel che accade: siamo sottomessi a un potere che ci impedisce di decidere sul nostro fine vita. Sia chiaro: un potere forte contro il quale si scontrò il radicale Marco Cappato per aver accompagnato dj Fabo verso l’eutanasia in una clinica svizzera. Oggi, sul tema, c’è la decisione della Corte costituzionale. Ma torniamo al libro: è una miniera d’argomenti il testo di Flores. Colto, acuto, profondo e di agevole lettura: si muove tra Sofocle e Montaigne e David Hume e Giacomo Leopardi, e mostra il paralogisma in cui cade Immanuel Kant, per il quale è illecito togliersi la vita, ma dà per “presupposto quanto dovrebbe essere dimostrato”. Giudichi il lettore la forza logica dell’autore (pp.69-74).

Qui osservo, col nostro, che, dal punto di vista giuridico, la sedazione profonda permanente è consentita dalla legge (la volle per sé anche il cardinale Martini), e della “persona” non restano, in questo caso, che le funzioni biologiche. E allora: “che differenza c’è tra lasciare che tali funzioni non più umane cessino un giorno o una settimana prima o dopo?” (p. 120).

Sono stringenti gli argomenti, anche quelli in cui l’autore si confronta col cardinale Tettamanzi e monsignor Paglia che vedono nell’eutanasia una “china pericolosa”: “trascina con sé la legittimazione di misure immorali, fino all’omicidio di ogni vita giudicata inutile o indegna come nel nazismo” (p. 106). Flores non ci sta e denuncia la malafede: il suicidio assistito poggia “sull’autodeterminazione” della persona, la pratica nazista “sulla prevaricazione”. Perché accostarli? Infine: il lettore troverà pagine su Kung, Franzoni, san Filippo Neri che giustificano l’eutanasia (pp. 114-118), e un riferimento a Indro Montanelli: viene meno la dignità di vivere – dice Indro – quando non si è più in grado di andare in bagno da soli (p. 94).

Sembra poco di fronte agli argomenti della filosofia: invece riporta il problema alla dimensione quotidiana. È molto bello il libro di Paolo Flores d’Arcais, lo leggi e senti che un tema così delicato meritava la lucida intelligenza di chi l’ha scritto, e la sensibilità e l’attenzione di quanti – spero molti – ne gusteranno, pagina dopo pagina, la coerenza, la passione civile, i sillogismi. La vita è tua: sul tuo fine vita decidi tu. Il potere, almeno in questo, resti fuori e si limiti ad adeguare la legislazione alla nuova sensibilità della società civile.