Cinema

Easy Rider, De Filippo, Chahine: al Cinema Ritrovato di Bologna tornano grandi capolavori che hanno fatto politica dando spettacolo

Il capolavoro di Dennis Hopper, restaurato da Sony Columbia per il festival organizzato dalla Cineteca di Bologna, visto sullo schermo gigantesco di Piazza Maggiore è un evento visivo senza eguali. Tra le tante sezioni quelle dedicate all’Eduardo De Filippo cineasta e a un immenso autore popolare come l’egiziano Yussef Chahine

“Parlano tanto di libertà individuale ma quando incontrano le persone libere hanno paura”. A rivedere Easy Rider più di vent’anni dopo la prima occhiata in Vhs (L’Unità di Veltroni, grazie compagno Walter) ci ha sconvolto l’esistenza. Intanto perché il capolavoro di Dennis Hopper (1969) va guardato da sotto lo schermo e non da davanti alla tv. Già, perché alzando il naso all’insù verso uno dei più grandi schermi al mondo di cinema all’aperto, quello del Cinema Ritrovato in Piazza Maggiore a Bologna, è come se Dennis Hopper/Billy e Peter Fonda/Wyatt-Capitan America con i loro chopper ti passassero sopra la testa. Poi perché quel canto libero della controcultura degli anni Sessanta statunitensi, ammirato in una dimensione extralarge, sembra come scaraventarti addosso la tragica constatazione del fallimento di una sentita utopia.

Che quel desiderio dei due protagonisti hippie di uscire dagli schemi e dalle convenzioni sociali venga falciato con la loro improvvisa, violenta, antieroica morte provocata da dei bifolchi lascia un segno nell’anima come pochi altri sono riusciti nella controcultura cinematografica statunitense di quegli anni (America 1929 di Scorsese, forse). Impadronirsi di Fonda-Hopper e Jack Nicholson (che cos’è Nicholson in questo film, come fa impennare il racconto alla sua apparizione, come mastica e strabuzza occhi e bocca Jack in quei trenta minuti), respirare la polvere di questo on the road che sembra un western, di un viaggio à rebours rispetto alla norma culturale geografica (da Ovest a Est, dalla California a New Orleans per vedere il Mardi Gras), significa entrare nella capsula temporale della contestazione vissuta realmente sulla pelle come oggi non accade più nei contesti di “ribellione” occidentali.

Easy Rider è un film anarchico nello spirito e maestosamente fordiano nello stile. Contemplazione visiva per metà durata e, verso il finale, abbozzo visionario sciolto nell’eterno scontro politico tra irregolarità e reazionarismo. Il restauro ad opera di Sony Columbia e Immagine Ritrovata recupera poi l’intensità fiammeggiante della fotografia del compianto Laszlo Kovacs e spara a mille una colonna sonora che ha contraddistinto un’epoca. Davvero, ascoltare Born to be wild degli Steppenwolf e It’s al right ma di Roger McGuinn con delle casse da concerto a San Siro fino a far vibrare i bassi dentro allo stomaco è un’esperienza mistica quasi come il celebre trip in acido di Billy e Wyatt nel cimitero di New Orleans (forse oggi la parte più forzata dell’opera). Easy Rider invecchiato? Ma quando mai.

Altra sezione, altro regalo. Napoletano a Cinecittà, Eduardo De Filippo è un tassello minuto, rispetto all’immensità del Cinema Ritrovato composta da centinaia di film, ma significativo su uno dei più popolari commedianti e drammaturghi del teatro italiano del novecento. Eduardo al cinema, però. E per un brevissimo periodo: dal 1950 al 1953. Appena dopo i capolavori teatrali del post ’45 tra cui Questi fantasmi, e poco prima del ritorno sulle scene con Pulcinella, Eduardo gira alcuni film tratti delle sue commedie teatrali che a rivederli oggi hanno una prepotenza politica e una densità di scrittura e regia da far invidia a chiunque. Segnaliamo intanto Napoli Milionaria che è del 1950. Produzione cospicua di Dino De Laurentiis, tratta da una piece scritta e messa in scena nel 1945 a teatro mentre le cronache riportano la lavorazione di Roma città aperta. È il De Filippo della celebre battuta “adda passà a nuttata”. Neorealismo spinto in una Napoli set vicolo con la popolazione carica e orgogliosa di espedienti e tradizioni quotidiane inamovibili nonostante la dittatura fascista, l’apparizione dei nazisti, l’occupazione alleata e il dualismo comunisti/democristiani.

Eduardo cesella il suo personaggio, don Gennaro, senza che invada la scena, duettando con un mirabile Totò, attraversando caduta e ricostruzione di una città, scomparendo perfino (finisce al fronte), e riapparendo mentre cinismo ed egoismo avevano già preso il sopravvento tra la povera gente. Il linguaggio del cinema dona una profondità di campo e di sostanza al testo teatrale quasi a renderlo un titolo paritario dei vari De Sica, Rossellini, Pagliero. Stesso discorso per Napoletani a Milano (1953), un autentico capolavoro tragicomico tardo neorealista. Ancora gli abitanti disgraziati ma orgogliosi di un quartiere di Napoli dissestato che verrà ricostruito da una ditta milanese. Ci scappano però 4 morti e il capopopolo Eduardo trascina 4 finte famiglie dei defunti fino a Milano per chiedere un risarcimento. Ma i furbi industrialotti meneghini rifilano per compensare un posto in fabbrica per tutti gli uomini fin lì arrivati. Loro malgrado i napoletani accettano e il loro incontro con la nebbia mattutina, le insolenze antimeridionali degli albergatori, la tazzulella e cafè preparata in fretta dalle sciure, è terribilmente comico e anticipatore delle migrazioni nazionali che verranno. De Filippo non pago offre un’ultima parte di film incredibilmente comunista con tanto di occupazione della fabbrica e di chiacchiericcio operai meridionali poliziotti compaesani che merita solo grande rispetto. Cosa capiranno di quest’epoca d’oro del cinema popolare che faceva politica dei giovani under 30 di oggi? Nulla. Eppure se lo capissero altro che ribellione alla Easy Rider. Nel film c’è anche Anna Maria Ferrero, prima del burrascoso fidanzamento con Vittorio Gassman, che è così bella da mozzare il fiato.

Chahine: glamour, musica e rivoluzione è un’altra sezione del Cinema Ritrovato in cui il classico alieno caduto sulla terra guardandone i film potrebbe capire in un lampo cos’è stata la settima arte nel novecento. Youssef Chahine (1928-2008) regista egiziano eclettico e travolgente, un vero interprete totale delle potenzialità dei generi cinematografici, rappresenta una di quelle figure intellettuali di rilievo, trait d’union tra mondo arabo (non radicalizzato) e occidente (laico) che non ha mai sacrificato la spettacolarizzazione del cinema verso il popolo tutto, bello o brutto, a favore di chissà quale ghiribizzo autoriale. In Chahine l’autorialità sta proprio in questo vortice spettacolare di generi che si accavallano, rincorrono, susseguono di cui Central station (1958) ne è probabilmente l’esempio più eclatante. Il set è la stazione centrale de Il Cairo (oggi solo su quest’idea ci farebbero una serie su Netflix). Il microcosmo di personaggi attraversa in particolar modo gli strati più bassi della popolazione e dei lavoratori: facchini, bibitari, giornalai, ecc… e pone al centro un vagabondo zoppo (interpretato dallo stesso Chahine) che modulerà l’andamento della narrazione nel suo avvicinarsi/allontanarsi dal cuore della bella Hanouma.

Intanto gli stilemi dei differenti generi si fondo l’uno all’altro: dosi di documentario, di film sociale, poi ancora lampi di melò e una conclusione sanguinaria da noir da fare spavento. E come in tutti i film di Chahine la macchina da presa è frenetica, dinamica, instancabile (le carrellate in scavalcamento di campo nella sequenza del ballo sul vagone valgono i migliori momenti di Kubrick). Un cinema corale, politico fino al midollo, con la sottolineatura di una coscienza di classe, di lotta che ribolle, freme e si organizza dal basso (discorso identico che si potrebbe fare con i film di De Filippo), con i diritti dei lavoratori che prorompono seri e sentiti come se scaturissero dalla stessa angolazione di chi li vive e non caduti come sintesi intellettuale dall’alto. Chahine era uomo riflessivo e coraggioso, un regista formatosi a pane, neorealismo, film inglesi e francesi degli anni trenta. Con Central Station ha rivoluzionato la storia del cinema egiziano (i critici abituati a melodrammi e romanticherie furono schifati) e potrebbe gareggiare anche oggi in un qualsiasi festival competitivo dopo 60 anni. Ancora una domanda targata 2019: ma al di là dell’ovvio solidarismo umanitario che la cronaca impone, ma perché l’emancipazione delle classi subalterne e l’autodeterminazione dei popoli africani sono scomparsi dall’agenda della discussione politica degli intellettuali progressisti europei?. Zavattini direbbe: Chahine vi guarda (e non sarebbe contento).