Capitoli

  1. Partiti, fino a 150mila euro per un seggio. Il tariffario della democrazia in vendita
  2. Il seggio più caro lo vende il PD: "150mila euro per candidarsi"
  3. Lega, un salvadanaio a forma di Porcellum. Per concorrere devi pagare 145mila euro
  4. Il contratto di Fi modello “Porta a porta”: 70mila per un posto in lista. Ma pochi versano
  5. I Cinque Stelle chiedono un "contributo obbligatorio" di 114mila (ma va allo Stato)
Palazzi & Potere

Lega, un salvadanaio a forma di Porcellum. Per concorrere devi pagare 145mila euro - 3/5

Le chiamano “erogazioni liberali” ma di libero hanno ben poco: quei “contributi volontari” in realtà sono obbligati in forza di scritture private, atti notarili e contratti fatti sottoscrivere ai candidati prima di metterli in lista. Chi non si impegna a versare non viene candidato, chi non versa non sarà ricandidato. I partiti hanno anche fatto in modo che i versamenti (a loro stessi) siano esentasse. Ecco le quotazioni, partito per partito

Cambiamo partito, la Lega Nord. Il Porcellum l’han scritto loro, va da sé che siano i più esperti in materia di “tassa sul seggio”. Gli eletti tra le fila del Carroccio sono tenuti a versare nel salvadanaio di via Bellerio poco più del 40% del loro stipendio, tra i 2.000 e i 2.400 euro. Non si paga, invece, il contributo una tantum per la campagna elettorale. Un seggio del Carroccio vale dunque 145mila euro. L’impegno viene sancito davanti a un notaio con una scrittura che vale come riconoscimento di “debito” e costituisce anche titolo per l’emissione di un decreto ingiuntivo, in caso di inadempimento. Lo spiegò ai magistrati di Forlì l’ex segretaria della Lega Nadia Dagrada che insieme a Francesco Belsito custodiva la cassaforte del Carroccio. Si urlò alla scandalo, ci furono le note condanne su diamanti e quant’altro, ma la vicenda ebbe anche uno strascico a livello tributario e normativo tutt’ora pendente. Gli onorevoli che contribuivano alla causa, bontà loro, trovavano ingiusto pagare le tasse su quei versamenti. Il problema fu risolto allora alla radice, con un colpo di spugna in Parlamento benedetto da tutti i partiti.

Gli onorevoli Calderoli e Bisinella proposero un emendamento ad hoc alla legge che aboliva il finanziamento pubblico ai partiti – governo Letta, fine del 2013 – che dall’anno di imposta 2007 disponeva retroattivamente la “detraibilità delle erogazioni in favore dei partiti”. Il marchingegno aveva lo scopo dichiarato di sottrarre la generalità dei parlamentari dal fare i conti col Fisco, facendo passare come “donazioni” e atti di liberalità versamenti che in realtà sono il prezzo di una candidatura certa. Inutile dire che passò a pieni voti.

La faccenda, come detto, non è chiusa. Alcuni senatori, nel frattempo, erano stati chiamati in giudizio di fronte alle commissioni tributarie provinciali e nei loro ricorsi hanno preteso di far valere il “salvacondotto” attrezzato per loro dai colleghi. Alcune commissioni, in Piemonte ad esempio, hanno però ravvisato nella decisione del legislatore di allora una “contraddizione irragionevole” che hanno rimesso poi alla Corte Costituzionale. Il ragionamento: volendo abolire il finanziamento pubblico e regolare in modo trasparente le donazioni ai partiti, quella norma finiva di fatto per creare “un illegittimo privilegio che dovrà essere rimosso dalla Corte, perché non corroborato da ragioni oggettive che ne giustifichino la sussistenza”. Detto altrimenti: quel decreto partito dai partiti (e destinato ai partiti) “non tutela esigenze di carattere generale bensì interessi del tutto particolari e personali”. Per questo, a settembre, la commissione tributaria di Biella ha rimesso la questione alla Corte, dove pende tutt’ora. Se un domani passasse quella linea, per i donatori forzati del Parlamento sarebbero dolori.