
Oggi più che mai, l’autodeterminazione del popolo palestinese passa infatti dalla possibilità di gestire la propria terra e di liberarsi dai vincoli dell’occupazione
“L’espansione degli insediamenti, gli attacchi da parte dell’occupazione israeliana e dei coloni costituiscono una grave violazione del diritto internazionale. La comunità internazionale deve chiamare i responsabili a rispondere di queste violazioni, interrompere il sostegno alle attività degli insediamenti e adottare misure deterrenti, tra cui una chiara distinzione tra lo Stato di Israele e il territorio palestinese occupato nel 1967.”
Con queste parole, solo pochi giorni fa, il Presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Abu Mazen, in visita in Italia, chiedeva un impegno concreto per garantire un futuro al proprio popolo. Negli stessi giorni, una delegazione di economisti ed imprenditori dalla Cisgiordania – in una serie audizioni e incontri alla Camera, al Senato e al Ministero degli Esteri – ha denunciato con forza l’impatto socio-economico devastante dell’occupazione israeliana. Un’iniziativa realizzata nel quadro della campagna “Stop al commercio con gli insediamenti illegali”, promossa da Oxfam assieme a decine di organizzazioni italiane e internazionali.
Una serie di incontri arrivati come ultima tappa di un tour che ha toccato anche Parigi, Berlino, L’Aja, Bruxelles e Copenaghen, con un obiettivo principale: mostrare quanto il riconoscimento dello Stato di Palestina, pur importante, rischia di restare un mero atto simbolico senza un impegno concreto della comunità internazionale a costruire le condizioni affinché il popolo palestinese abbia una reale capacità di esercitare sovranità nel proprio territorio, riappropriandosi in pieno dell’uso dei terreni e delle risorse naturali.
Oggi più che mai, l’autodeterminazione del popolo palestinese passa infatti dalla possibilità di gestire la propria terra, di liberarsi dai vincoli dell’occupazione e dalle implicazioni dell’espansione delle colonie israeliane, illegali secondo il diritto internazionale.
L’enorme costo dell’espansione degli insediamenti per l’economia palestinese
L’espansione degli insediamenti israeliani oggi comporta una serie di costi enormi per l’economia e la società palestinese: la grande differenza tra la capacità di produzione, commercializzazione ed espansione delle colonie e quella del settore industriale palestinese limitano le possibilità di crescita. Una situazione alimentata dalle autorità israeliane, che forniscono le infrastrutture necessarie alla creazione di nuove zone industriali nelle aree della Cisgiordania occupate dalle colonie, mentre il Governo concede sovvenzioni che arrivano a coprire fino al 20% del capitale delle aziende che investono negli insediamenti e le fabbriche (nelle zone industriali) beneficiano di sconti sul canone di locazione dei terreni demaniali, che vanno dal 31% al 51%.
Tutto ciò fa sì che i prodotti sovvenzionati dalle imprese degli insediamenti nei mercati globali godano di un’elevata competitività a livello di prezzi rispetto ai prodotti palestinesi, con gravi ripercussioni sui flussi commerciali palestinesi. Cosa che si traduce in un aumento dei costi logistici di quasi il 30-40% dovuto ai ritardi nelle spedizioni o nei trasporti. Proprio questo ultimo punto lo ha spiegato bene pochi giorni fa Ziad Anabtawi, imprenditore palestinese membro della delegazione, nell’intervista rilasciata a ilfattoquotidiano.it.
Tra il 1980 e il 2021, il settore agricolo in Cisgiordania e Gaza ha perso circa il 60% dei terreni coltivati a causa dell’espansione degli insediamenti, delle restrizioni sull’uso dell’acqua per l’irrigazione, degli attacchi sempre più frequenti dei coloni agli agricoltori palestinesi e del muro di separazione. Si stima che tra il 2000 e il 2022, la perdita per l’economia palestinese – dovuta agli insediamenti e all’occupazione della Cisgiordania e della Striscia – sia stata pari a 176 miliardi di dollari (calcolando le perdite materiali e di opportunità). Secondo le Nazioni Unite nello stesso periodo il valore economico delle attività sviluppate dalle colonie è stato complessivamente di 1,3 trilioni di dollari (a prezzi costanti del 2015), arrivando a rappresentare fino al 21% del Pil annuo di Israele.
L’appello all’Italia e all’Unione europea
Di fronte a questo status quo, la delegazione in tutti gli incontri con le istituzioni italiane si è fatta portavoce si alcune richieste fondamentali. In primis, che l’Italia e l’Unione europea chiedano a Israele di sbloccare e trasferire le entrate fiscali destinate all’Autorità Palestinese, vitali per far funzionare l’apparato pubblico e garantire alla popolazione l’erogazione di servizi essenziali, come quello sanitario ed educativo. Si tratta di 3,5 miliardi di dollari di Iva, dazi doganali e altre imposte sulle merci che transitano attraverso i porti e le frontiere israeliane, che dovrebbero essere destinati ai territori palestinesi.
In secondo luogo, che si faccia pressione per consentire ai palestinesi di creare e gestire depositi doganali sul lato palestinese e rimuovere le restrizioni sul trasferimento della moneta israeliana (il Nuovo Shekel Israeliano, in corso anche nel Territorio Palestinese Occupato) dalle banche palestinesi a quelle israeliane, istituendo un nuovo meccanismo di pagamento transfrontaliero. In poche parole, di mettere in campo uno sforzo diplomatico finalizzato anche alla liberazione dell’economia palestinese e delle sue istituzioni.
La delegazione ha infine chiesto che si dia seguito a quanto chiesto dalla Corte di Giustizia con il suo parere consultivo del luglio 2024, dove ha chiarito l’illegalità dell’occupazione israeliana, chiedendo alla comunità internazionale di “adottare misure per prevenire relazioni commerciali o di investimento che contribuiscano al mantenimento della situazione illegale creata da Israele (nei Territori Occupati)”.
Alcuni gruppi parlamentari (Avs, M5S, Pd) hanno subito recepito l’appello e hanno inserito nelle loro risoluzioni, in vista del prossimo Consiglio Europeo, la richiesta al governo di dar seguito in sede europea a quanto richiesto dalla Corte. Il governo italiano purtroppo però anche in questo caso non ha dimostrato alcuna apertura e di voler rimanere dalla parte sbagliata della storia.
L’auspicio a questo punto è quindi che si arrivi a una proposta di legge che possa permettere una larga discussione parlamentare e che la politica italiana ritrovi finalmente il rispetto della legalità internazionale come punto di riferimento della propria azione.