Politica

Un milione in piazza per la Palestina: perché questo sciopero generale ha fatto la storia

I numeri in politica contano. Ed è stato bello contarsi e non riuscire a mettere un punto. Tra chi ha scioperato tanti l’hanno fatto per la prima volta nella propria vita

Si fa spesso abuso dell’aggettivo “storica” per descrivere una giornata, un’elezione, perfino una partita di calcio. Ma ciò che è successo lunedì 22 settembre è davvero “storico”.

1. Torneremo e saremo milioni

Innanzitutto per la fotografia. Uno sciopero generale convocato dall’Usb e che ha permesso a centinaia di migliaia di lavoratori e lavoratrici di incrociare le braccia. Un milione di persone nelle piazze in tutta Italia. Una marea che ha straripato ogni possibile argine, con una forte presenza giovanile. I numeri in politica contano. Ed è stato bello contarsi e non riuscire a mettere un punto. E poi i blocchi. Ai porti di Genova, Marghera, Salerno, Livorno. Alle stazioni di Napoli e Roma. Alle tangenziali di Bologna, Firenze.

2. Si rompe la “passivizzazione sociale”?

È già qui, nei numeri e nelle azioni, che si innesta una novità qualitativa. Tra chi ha scioperato tanti l’hanno fatto per la prima volta nella propria vita. Per una questione politica: fermare il genocidio in Palestina. Tra chi ha riempito le piazze ci sono giovanissimi al primo corteo, ma anche migliaia di persone che in piazza non ci andavano da anni.

Sono segnali di controtendenza: alla passivizzazione sociale che pare ci sia da tempo piovuta addosso come un sortilegio, hanno risposto le piazze strapiene rompendo l’incantesimo. Se questo potrà essere l’inizio di una riattivazione di massa lo vedremo, ma certo per 24h ha fatto irruzione sulla scena l’attore chiave: la partecipazione e il protagonismo popolare. Non si tratta di stare ad aspettare, ma di agire per dare continuità alla potenza che abbiamo visto dispiegarsi.

3. Non è il risultato della sola indignazione, ma della nascita di una speranza

C’è chi segnala l’indignazione come sentimento fondamentale della giornata. È sì elemento necessario, ma non sufficiente. C’era anche prima. C’è, fortunatamente, da mesi. In settori via via più ampi della popolazione. Solo che finora si era accompagnata a un senso di impotenza che paralizzava. Lunedì 22 no. Qualcosa è cambiato. Perché?

Innanzitutto perché sia lo sciopero che i cortei non servivano solo a testimoniare il proprio “no” al genocidio in corso. È stato ripetuto in ogni piazza: non è il tempo delle parole, ma dei fatti. La parola d’ordine era “blocchiamo tutto”. L’obiettivo non era a Tel Aviv, ma Roma; non Netanyahu, ma Meloni. Scioperanti e manifestanti condividono l’idea che “bloccando” qui si può gettare un granello di sabbia nell’ingranaggio del genocidio in Palestina perché è qui che si sviluppa la catena di complicità con Israele.

Una parola d’ordine, però, per quanto con una potenza che deriva anche dalle sorelle piazze francesi del “bloquons tout”, non è sufficiente a intercettare il già esistente sentimento popolare e permettere che si dispieghi un movimento di massa. Serve la credibilità delle forze che si sono assunte l’onere della convocazione.

Il portuali di Genova (CALP) e l’Usb hanno dimostrato di averla. Una credibilità che è figlia della coerenza tra il dire e il fare, che il 30 agosto li aveva portati a fare appello a “bloccare tutto” solo dopo aver loro per primi percorso quella strada; e della possibilità, perché i blocchi dei portuali sono stati efficaci, capaci di bloccare le armi dirette a Israele. In tempi in cui la politica sembra ridotta a pura performance comunicativa, torna l’elemento materiale, l’azione concreta che può modificare la realtà e non solo la sua rappresentazione.

Vale per la guerra, ma in potenza può valere per le altre rivendicazioni presenti nello sciopero e in piazza: rifiuto dell’aumento delle spese militari, salario minimo dignitoso, lotta agli omicidi sul lavoro, urgenza di una sanità pubblica che non lasci nessuno indietro. L’esplosione nei posti di lavoro e nelle strade è frutto della felice unione di organizzazione, sentimento popolare di massa e ribellione collettiva. Non è detto che non possa sedimentare per poi ripetersi.

Se la rassegnazione disattiva e spinge a rinchiudersi nel privato, speranza e fiducia nella propria forza e nel proprio potere suscitano infatti attivazione e presa di parola pubblica e collettiva.

4. Né Cgil, né centrosinistra

A convocare sciopero generale e manifestazioni non sono state né il principale sindacato italiano, la Cgil, né uno dei principali partiti politici del centrosinistra. Bisogna dirlo con chiarezza: senza l’azione dell’USB e del sindacalismo di base, senza il lavoro anche sotterraneo di organizzazioni sociali, giovanili e politiche (e sono orgoglioso che come Potere al Popolo! Abbiamo dato il nostro umile contributo) nulla di tutto questo sarebbe stato possibile. Il risultato è stato simile a quello della capacità mobilitativa delle grandi organizzazioni di massa del Paese.

È il segnale che un preteso monopolio delle piazze e dei posti di lavoro da parte del centrosinistra politico e sindacale è quanto meno incrinato. Assisteremo a tentativi di recupero, alcuni già in corso. Ma abbiamo avuto più volte riprova che un nuovo movimento di massa fa paura non solo all’ultradestra, ma anche al centrosinistra, timoroso di perdere il timone e di non riuscire più a svolgere la funzione di “mediazione al ribasso” che ha esercitato finora.

Per dare vita a un nuovo “blocco storico” c’è bisogno di percorrere strade nuove e non tracciate, fuori dai recinti dei “poli” oggi in campo.

5. L’aringa affumicata dell’ultradestra

A mo’ di post scriptum. L’ultradestra al governo in Italia è stata silente per ore. Il milione di persone in piazza dalle grandi metropoli ai piccoli centri delle dimenticate aree interne non le permettevano alcuna presa di parola. Poi il lancio di una “red herring”, l’“aringa affumicata”. Una tecnica che veniva usata per distrarre i cani da caccia nel corso degli addestramenti, disseminando il terreno proprio di aringhe affumicate e che in comunicazione politica mira a spostare l’attenzione, “distrarla” da un argomento a un altro. Così Meloni, Salvini e Tajani non parlano dello sciopero generale né delle piazze strapiene, ma di qualche vetrina infranta alla stazione di Milano.

E il potere mediatico si lancia sull’aringa affumicata. Il Corriere della Sera addirittura titola “Guerriglia a Milano su Gaza”. Se abboccano all’aringa affumicata è perché evidentemente l’enorme mobilitazione non è un segnale benvenuto per tutti. Nemmeno tra i “progressisti”. Il risveglio dal torpore a qualcuno fa paura.

E allora che continuino ad avere paura. Cominciamo dal prossimo passo. La risposta che saremo chiamati a dare quando Israele attaccherà la Global Sumud Flotilla. L’organizzazione della manifestazione nazionale a Roma del 4 ottobre. Tutti gli occhi sulla Flotilla. Ma, soprattutto, tutti gli occhi sulla Palestina.