Economia

Tassa minima sulle multinazionali, il G7 cede e si inchina a Trump: i gruppi Usa saranno esentati. Giorgetti “soddisfatto”

Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia e Regno Unito hanno capitolato. Così si indebolisce la credibilità del “secondo pilastro” della riforma globale della tassazione, tra le principali iniziative multilaterali in materia di giustizia fiscale. Ora a rischio anche le web tax

La tassa minima globale del 15% sulle multinazionali, già depotenziata da molte scappatoie, ora diventa un colabrodo. Il segretario al Tesoro Usa Scott Bessent ha annunciato via X che “dopo mesi di discussioni produttive” i Paesi del G7 hanno trovato un accordo che di fatto esenta i gruppi statunitensi, Big tech comprese. Sabato la presidenza canadese del gruppo dei sette grandi ha confermato. In pratica Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia e Regno Unito hanno capitolato. Chi ha sede negli Stati Uniti non sarà soggetto al cosiddetto “secondo pilastro” della riforma globale della tassazione, concordato in sede Ocse nel 2021 da oltre 140 Stati per tentare di mettere un freno alla concorrenza fiscale al ribasso tra governi interessati ad attirare sul proprio territorio le sedi dei colossi tech e non solo e applicato nella Ue dal gennaio 2024.

Gruppi Usa esclusi dalle regole comuni – L’intesa raggiunta al G7 “faciliterà ulteriori progressi nella stabilizzazione del sistema fiscale internazionale”, incluso un “dialogo costruttivo” sulla salvaguardia della “sovranità fiscale di tutti i Paesi”, sostiene la presidenza di turno canadese. I dettagli dovranno ovviamente essere discussi proprio all’Ocse. Il comunicato spiega che l’obiettivo è salvare i gruppi a controllo Usa dalla Income Inclusion Rule, in base alla quale la casa madre di una multinazionale dovrebbe versare un’imposta aggiuntiva se una sua controllata estera paga meno del 15% di tasse nel Paese in cui opera, e dalla Undertaxed Profits Rule, che consente agli Stati dove il gruppo fa affari di tassare parte dei profitti non tassati altrove, se né la filiale né la casa madre hanno versato imposte adeguate. L’esenzione è motivata “in virtù delle regole di tassazione minima esistenti negli Usa a cui sono soggetti”: sembra un riferimento al regime Gilti (Global intangible low-taxed income) introdotto nel 2017 dalla riforma fiscale della prima presidenza Trump, che dispone l’applicazione di un’aliquota molto ridotta sui profitti esteri superiori a una soglia di rendimento normale e finora non era considerato equivalente alla global minimum tax.

L’Ocse fa buon viso – Per il segretario generale, Mathias Cormann, la decisione del G7 è “un’importante pietra miliare nella cooperazione fiscale internazionale”: quanto meno discutibile, considerato che si tratta di una evidente marcia indietro rispetto alla principale iniziativa multilaterale degli ultimi anni in materia di giustizia fiscale. Una minima resistenza sembra arrivare da Manal Corwin, responsabile della divisione fiscale dell’Ocse, che sottolinea come la dichiarazione del G7 non sia vincolante e ricorda che qualsiasi proposta dovrà essere approvata da 147 paesi dell’organizzazione come nel 2021.

Per Giorgetti “compromesso onorevole” – Il ministro dell’Economia italiano Giancarlo Giorgetti dal canto suo ammette che di “compromesso” si tratta, ma lo definisce “onorevole” e rivendica che “protegge le nostre imprese dalle ritorsioni automatiche degli Stati Uniti”. Riferimento alla cosiddetta ‘tassa della vendetta‘ prevista dalla Sezione 899 del Big, beautiful bill ora in discussione al Senato Usa: un balzello fino al 20% sugli investimenti di cittadini e imprese residenti in Paesi con politiche giudicate inique nei confronti degli interessi Usa. Bessent ha annunciato che la misura, che spaventava gli investitori, ora sarà eliminata.

Vittoria per Trump, resa della Ue – Di certo si tratta di una vittoria diplomatica per Trump e di una resa imbarazzante per gli altri membri del G7, a partire dai tre membri dell’Ue (che nel frattempo sta trattando per sventare l’entrata in vigore da luglio dei dazi reciproci). I leader delle grandi nazioni sviluppate accettano di fatto una deroga unilaterale a favore della prima economia mondiale, indebolendo l’efficacia e la credibilità dell’intero impianto pensato per contrastare elusione fiscale e profit shifting, la pratica delle multinazionali di scegliersi la giurisdizione con le aliquote più favorevoli per registrare i propri utili. Se i gruppi Usa sono fuori, lo schema non ha più senso.

Va ricordato che Washington – come Pechino – non ha mai implementato la tassa minima. L’amministrazione Biden, pur avendo firmato l’accordo in sede Ocse e G20, non era riuscita a farla approvare dal Congresso e Trump si è apertamente opposto fin dal giorno dell’insediamento all’ipotesi che le aziende statunitensi fossero assoggettate alla Undertaxed Profits Rule, in base alla quale i Paesi dove opera una filiale della multinazionale possono tassare parte dei profitti se la casa madre ha sede in una giurisdizione che non applica la minimum tax. Il 20 gennaio, ha emesso due ordini esecutivi che incaricavano il Tesoro di difendere la sovranità fiscale degli Stati Uniti mettendo a punto una lista di misure punitive con cui colpire i Paesi che applicano regole dannose per le corporation americane. Ora ottiene il risultato voluto.

Web tax a rischio – Resta da vedere come si muoveranno gli Stati, Italia compresa, in cui da anni sono in vigore digital tax nazionali che colpiscono anche i gruppi Usa. La possibilità di mantenerle in vigore era stata ufficializzata a fine 2021 attraverso la firma di un compromesso (nel frattempo scaduto) con l’amministrazione Biden, in attesa di passi avanti sul “primo pilastro” della riforma globale della tassazione, quello che prevede la redistribuzione del diritto a tassare una parte di utili tra tutti i Paesi in cui un gruppo è attivo. Al Senato Usa non c’è mai stata la maggioranza necessaria per far passare il necessario trattato fiscale internazionale e già prima dell’elezione di Trump era apparso evidente come la norma fosse su un binario morto. Tornato alla Casa Bianca, il tycoon ha minacciato ritorsioni nei confronti di chi adotta “misure fiscali discriminatorie”. E due mesi fa la premier Giorgia Meloni non ha esitato a firmare con lui un comunicato congiunto in cui si predica la necessità di “un ambiente non discriminatorio in termini di tassazione dei servizi digitali”, prefigurando una possibile abolizione della tassa. Che lo scorso anno, stando all’ultima Relazione della Corte dei conti sul rendiconto generale dello Stato, ha fruttato all’erario un gettito di 455 milioni di euro.