Società

Anch’io mi immagino Netanyahu nell’Inferno dantesco. Ma la condanna non varrebbe solo per lui

"Mi immagino Netanyahu vivere per l’eternità in una Gaza infernale distrutta dai suoi bombardamenti, dove viene dilaniato da una bomba, si ricompone e rinasce, muore di fame per sei mesi, e poi il girone infernale ricomincia"

di Elisabetta Caponi Campus

Così come padre Dante nell’Inferno mise molti dei suoi contemporanei, anch’io immagino di mettere all’Inferno lo sterminatore di Gaza, Netanyahu – che nella religione sua un luogo post mortem dove essere retribuito per quanto fatto in vita per l’eternità non c’è. L’anima del giusto e timorato lasciato il corpo si unisce, elevandosi alla fonte divina, raggiungendo le anime degli avi che l’hanno preceduta, e qui c’è da chiedersi, senza pregiudizio alcuno, che cosa stiano pensando gli avi di quello che Netanyahu sta combinando in terra. Tuttavia vi è un luogo, il Gehinom, dove per un breve periodo l’anima si purifica per la sua ascesa finale al Gan Eden (“Giardino dell’Eden”).

Volendo stare all’ipotesi tutta cristiana della retribuzione per quanto fatto in vita, si tratta per prima cosa di replicare all’inverso il peso della colpa, commisurando il dolore al dolore provocato riproducendo luogo e circostanze con attenzione. Dunque condannandolo a vivere per l’eternità in una Gaza infernale distrutta dai suoi bombardamenti, dove viene dilaniato da una bomba, si ricompone e rinasce, muore di fame per sei mesi, e poi il girone infernale ricomincia. Non vi è pentimento perché le anime malvagie restano tali, ma la coscienza di quanto fatto è ben viva ed è il vero dolore che supera quello fisico.

Difficile determinare in quale settore porlo, non essendoci nell’Inferno di padre Dante un girone dedicato unicamente a chi fa strage dei suoi simili (altri esseri umani) se non quello del settimo cerchio, quello dei violenti contro gli altri, in compagnia dei tiranni, colpiti da saette scoccate da Centauri e immersi nel fiume di sangue bollente Flegetonte.

Anche nel mondo pagano, tra Egizi e Greci, le “punizioni” per quanto fatto in vita esistono, dal tormento di Tantalo condannato ad avere fame e sete per sempre e schiacciato da un masso, impossibilitato a bere o mangiare, colpevole tra gli altri atri misfatti di aver ucciso suo figlio e averlo “servito” come pasto agli dei a un banchetto in loro onore, alla condanna del dio Thot nella pesatura dell’anima: il cuore del defunto pesante più della piuma messa sulla bilancia sarà mangiato da Ammit, “colei che ingoia il defunto”, rappresentata da un mostro composito ai piedi della bilancia, che somma in sé gli animali più pericolosi dell’Egitto: il coccodrillo, il leone e l’ippopotamo.

Tuttavia tutto questo supplizio infernale, come avrebbe considerato anche padre Dante, non può essere solo condanna di uno solo, ma di tutti coloro che in vita lo hanno sostenuto nelle azioni e nei propositi, non frenando la violenza verso gli altri e dando ad essa una giustificazione salvifica che va ben oltre le obiettive ragioni di conservazione del potere e di difesa.

Fatto questo esercizio di immaginazione, sia adesso il momento della ragione per comprendere quanto, ancora oggi, l’uomo sia capace di andare ben oltre i confini da lui stesso stabiliti per la convivenza tra i suoi simili, e che la barbarie dell’annientamento dell’altro conduca all’abbrutimento dell’animo e dello spirito. La pace dentro di sé è un peso che solo uomini giusti possono sopportare.

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