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Il Mar Rosso è un collo di bottiglia: una guerra qui ha conseguenze imprevedibili

Il Mar Rosso è un collo di bottiglia per il commercio marittimo globale, un fatto di cui dal novembre dello scorso anno i ribelli Houthi dello Yemen hanno approfittato prendendone di mira il transito con attacchi missilistici. Lanciati come una protesta contro l’invasione di Gaza da parte di Israele, gli attacchi hanno inizialmente preso di mira navi dirette in Israele per poi estendersi a navi collegate agli Stati Uniti e al Regno Unito, quando i due paesi si sono coalizzati per pattugliare l’ingresso meridionale del Mar Rosso. Americani e britannici hanno lanciando attacchi aerei contro le postazioni degli Houthi vicino a Bab el-Mandeb, lo stretto infatti si trova in prossimità della costa occidentale dello Yemen controllata dagli Houthi. Da quel tratto di mare passa il 12 per cento del commercio marittimo mondiale, e cioè quello che congiunge l’Asia all’Europa ed in parte anche il Nord America grazie al Canale di Suez in Egitto.

Tante le conseguenze della guerra nel Mar Rosso, perché di questo si tratta anche se nessuno vuole ammetterlo, tante ed alcune imprevedibili. A tutti noto è l’aumento dei costi delle merci, circumnavigare l’Africa passando per il capo di Buona Speranza allunga il tragitto di due settimane e comporta un costo intorno al milione di dollari, a seconda della natura dei prodotti. Ma grave è anche l’impatto delle petroliere e navi cisterna colpite che affondano nel canale di Suez.

Gran parte di questo tipo di imbarcazioni viaggia senza adeguati certificati di assicurazione, lo si evince da un’analisi condotta da Bloomberg. Chi vuole intraprendere il viaggio lo fa insomma a suo rischio. Da un’analisi di Bloomberg risulta che da quanto gli attacchi degli Houthi sono iniziati, la percentuale di petroliere e navi cisterna vecchie che transitano nel Mar Rosso è salita all’8 per cento dall’3,4 per cento nel 2023. Ma è possibile che la percentuale sia più alta dal momento che per non essere intercettate alcune navi disattivano i sistemi di localizzazione mentre si trovano nella regione.

Le vecchie imbarcazioni, naturalmente, sono più a rischio di avere una fuoriuscita di petrolio, fertilizzanti ed altre sostanze chimiche, nonché di essere affondate. Aumenta, dunque, la minaccia per le barriere coralline e le mangrovie, gli stock ittici e la contaminazione dei porti lungo il canale. L’affondamento della Rubymar, presa di mira dagli Houthi per i suoi collegamenti con il Regno Unito, ed abbandonata dall’equipaggio il 18 febbraio scorso, minaccia di causare un disastro ecologico. Si stima che dalla sua stiva potrebbero fuoriuscire 21.000 tonnellate di fosfato di ammonio oltre al carburante utilizzato per la navigazione. Chi pagherà? La risposta è nessuno.

I danni causati dalla Rubymar non sono però limitati all’ecosistema del Mar Rosso. Affondando la nave ha danneggiato una serie di cavi di telecomunicazione che trasportavano circa il 25 per cento del traffico Internet nella regione ed erano fondamentali per collegare le infrastrutture di telecomunicazioni dell’Europa a quelle dell’Asia.

La maggior parte del traffico Internet tra Europa e Asia orientale, circa il 90 per cento, scorre attraverso cavi sottomarini che si incanalano all’estremità meridionale del Mar Rosso, in prossimità di Bab el-Mandeb. Questo altro collo di bottiglia, rappresenta da tempo un rischio per le infrastrutture delle telecomunicazioni a causa del traffico intenso delle navi, che aumenta la probabilità che, ad esempio, una caduta accidentale dell’ancora colpisca un cavo.

Nel caso della Rubymar è probabile che il 24 febbraio scorso affondando la nave e l’ancora abbiano tagliato una serie di cavi. Sebbene i tagli non siano stati sufficienti a disconnettere nessun Paese, hanno però peggiorato il servizio web in India, Pakistan e in alcune parti dell’Africa orientale. In assenza di polizze assicurative le telecomunicazioni e le connessioni internet sono state ripristinate dai servizi satellitari. Servizi offerti da imprese private come Starlink o Intelsat, multinazionale del Lussemburgo che al giugno del 2022 aveva una flotta di 52 satelliti di comunicazione, tra le più grandi al mondo.

Impossibile quantificare i costi aggiuntivi della crisi delle telecomunicazioni causata dalla guerra nel Mar Rosso, al momento si stima che ogni giorno questi siano di 150mila dollari. Possibile è invece intuire l’importanza delle comunicazioni satellitari in un mondo dove le guerre sono tornate in auge. Al momento le telecomunicazioni tra il Sud Est Asiatico e l’Europa sono fornite dal consorzio AAE-1, che è composto da oltre 17 operatori provenienti da nazioni diverse, tra cui China Unicom, Djibouti Telecom, Etisalat, Global Transit, HyalRoute, Jio, Metfone, Mobily, Omantel, Ooredoo, Oteglobe, PCCW Global, PTCL, Retelit, Telecom Egypt, TeleYemen, TOT, VNPT e Viette. La sua sostituzione con una rete satellitare di proprietà di una singola compagnia darebbe a quest’ultima il potere di controllare il traffico tra i due continenti, creerebbe insomma le condizioni per un potentissimo monopolio.

Se la crisi delle telecomunicazioni nel Mar Rosso non è un fenomeno isolato, ma una minaccia reale che potrebbe verificarsi in altre zone dove si trovano snodi di connettività nevralgici, allora diventa chiaro perché la corsa alla cablatura dell’orbita terrestre bassa è fondamentale per i baroni dello spazio, da Elon Musk a Jeff Bezos a multinazionali come Intelsat. Una volta preso il posto dei consorzi internazionali, i baroni dello spazio controlleranno dai loro satelliti le comunicazioni terrestri.