Società

Non c’è democrazia senza i giovani, ma la partecipazione va costruita

di Flavio Barbaro

Alcuni dati sulla democrazia e perché senza i giovani non è completa. Secondo il report del Democracy Index 2023 redatto dall’Economist, che ci fornisce una fotografia dello stato della democrazia nel mondo, l’Italia si posizionerebbe al 34° posto come Flawed democracy, la categoria per chi ottiene un punteggio medio tra il 6 e l’8 su 10 tra le valutazioni di cinque criteri. Il nostro punteggio è di 7.69 (la media dell’Europa occidentale è di 8.37). Mentre in materia di processo elettorale e pluralismo ce la caviamo bene (con un punteggio di 9.58, lo stesso della Svezia che è quarta e Full democracy), non si può dire lo stesso degli altri criteri dove si potrebbe fare di più: 6.79 per il funzionamento del governo, 7.22 per la partecipazione politica, 7.50 per la cultura politica e 7.35 per le libertà civili.

Possiamo però mettere a fuoco il terzo e quarto voto, strettamente connessi tra di loro: la partecipazione dipende dalla cultura politica, proprio come la cultura politica dipende dalla partecipazione. In questo vortice si trova la condizione dei giovani.

Secondo i dati raccolti dall’Istat, nel 2022 poco meno di otto giovani di 18-19 anni su cento ascoltavano un dibattito politico quotidianamente, il 41.2% del campione della stessa età non si informava mai, mentre l’11.9% lo faceva qualche volta all’anno, i ragazzi che non si informano lo fanno al 74.4% per scarso interesse, il 46.6% non discute mai di politica. Un dato su tutti: mentre il 7% del campione è attivo religiosamente almeno una volta a settimana, lo 0% è attivo in un partito.

Ci sono senz’altro molti motivi che potrebbero portare a preferire un oratorio ad un partito, tra cui anche un lungo ragionamento sulla crisi dei partiti, ma quello che voglio far notare è come gli altri numeri ci consegnino un elemento aggiuntivo all’analisi del nostro stato di democrazia, ma anche il fatto che al dibattito democratico non partecipi una componente fondamentale della nostra società, cioè quella dei giovani. Forse anche questo ci impedisce di aspirare a posizioni più alte nella classifica della democrazia.

Ultimi dati: secondo un recente articolo del Financial Times di John Burn-Murdoch, esiste un gap ideologico di genere che porterebbe – riassunto per sommi capi – le ragazze ad essere sempre più progressiste e i ragazzi ad essere sempre più conservatori. Questa polarizzazione impoverisce il nostro dibattito, non solo perché c’è una grande parte di giovani che non discute di politica, ma anche perché queste tendenze potrebbero premiare atteggiamenti estremi piuttosto che il confronto. Si intuisce come in questo possa avere un ruolo lo scarso incentivo ad avere effettivamente una cultura politica e ad esprimerla in una discussione, non solo per il disinteresse suscitato dalla scena politica italiana, ma anche per il clima di discussione aspro e aggressivo che non permette più la costruzione di dialoghi, soltanto di litigi.

Un’idea per uscire da questo stato dormiente del rapporto tra politica e giovani è riprendere in mano la parola chiave di questo ragionamento, cioè “partecipazione”. Nel celebre libro Democrazia in America di Alexis De Tocqueville del 1830, il celebre politologo e sociologo francese faceva notare come negli Stati Uniti dell’epoca “il comune è stato organizzato prima della contea, la contea prima dello Stato, lo Stato prima dell’Unione” e come lì ci fosse il più alto numero di associazioni del mondo.

Proprio qui sta il punto: la partecipazione deve essere costruita, attraverso il ruolo di associazioni e giornali e l’insegnamento della cultura politica, di modo che l’interesse dei giovani si traduca in proposte, che portino alla partecipazione democratica, pratica e locale, ancor prima che generalizzata (concedendo, ad esempio, il voto ai fuorisede). In questo modo, costruendo dialoghi sul proprio futuro più prossimo, quello della propria comunità, si può evitare la polarizzazione e aspirare alle vette della democrazia.

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