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La fine annunciata di Navalny irrompe nello show elettorale concertato di Putin e Trump

Non c’erano molti dubbi che Putin, nella sua irresistibile campagna elettorale senza concorrenti in quanto eliminati per “irregolarità” di varia natura (e si tratta dei più fortunati e innocui lontani dalla Siberia), avrebbe dato il meglio di sé.

Infatti è riuscito a non sfigurare nemmeno a paragone delle minacce dell’amico Trump di dare in pasto alla Russia gli alleati europei che non stanziano abbastanza per la difesa comune, in una sorta di gara concertata per intimidire l’Europa e per infierire sul nemico comune Joe Biden già in difficoltà.

Questo endorsement “strano, strano” a favore di Biden “più esperto e più prevedibile. Un politico della ‘vecchia scuola’ da preferire a Trump”, che Vladimir Putin ha lanciato dalla tv di stretta osservanza putiniana Rossiya-1, si accompagna al giudizio sibillino sul tycoon: “un politico non sistemico, con una propria opinione su come gli Usa dovrebbero sviluppare le relazioni con i loro alleati”. Qualcosa che suona totalmente falso e incongruente con l’asse che si è consolidato tra i due irriducibili nemici della democrazia, confermata solo qualche settimana fa dal sostegno plateale dello zar alla tesi complottistica del voto rubato dai democratici a Trump con relativa insurrezione contro il Parlamento.

Per non rievocare le interferenze comprovate di Putin a scapito di Hillary Clinton nel “Russiagate” finalizzate a favorire l’allora outsider con ogni mezzo, prevedendo puntualmente che il suo spregiudicato “disimpegno” in politica estera avrebbe potuto tornargli molto utile.

E quanto sia potente il collante che tiene uniti il padrone della Russia interessato solo a perpetuare il suo potere e il tycoon “maestro in accordi ed affari” che si è fatto eversore per ritornare alla Casa Bianca lo ha spiegato bene Tony Schwartz, un ex giornalista e ghostwriter all’origine delle fortune di Donald Trump. Un ritratto essenziale focalizzato sul senso del potere per Trump che lo accomuna, pur con le dovute proporzioni rispetto alla caratura criminale ineguagliabile dello zar, all’amico Vladmir: “Trump è un uomo senza principi. Non crede in niente se non in ciò che pensa lo aiuti ad essere dominante. Odia la democrazia, preferisce i regimi autoritari”. Per lui come per Putin, se si pensa che la persecuzione nei confronti di Alexei Navalny si è inasprita a seguito dell’inchiesta della sua fondazione sulle dimensioni e l’opulenza delle proprietà segrete dello zar, “la cosa più importante nel dominare è avere più soldi”. Infatti “ammira Putin e Kim Jong-un perché hanno accumulato miliardi, mentre lui ha solo finto di averlo fatto” (LaStampa, 12 febbraio).

Prima di questo “endorsement” avvelenato a Biden, per sconcertare l’elettorato americano e spingere sull’onda della confusione e del timore gli indecisi nelle spire di Trump, c’era stata l’intervista esclusiva di Putin con il più fidato ultra-trumpiano Tucker Carlson, congedato anche dalla Fox News per eccesso di slancio complottista. Ovviamente era stata l’occasione di un comizio storico-propagandistico di oltre 2 ore per ribadire che: il 24 febbraio 2022 la guerra non è iniziata ma che “l’operazione speciale” doveva solo porvi fine; gli scopi non sono stati raggiunti perché non c’è stata “la denazificazione”; l’Ucraina non esiste e dunque ne ha promesso una bella fetta ad Orban; la guerra finisce quando l’Occidente smette di inviare le armi; la Russia non può essere battuta e quindi va disarmata l’Ucraina (in perfetta sintonia con il pacifismo nostrano). E fin qui non molto di nuovo, ma aveva anche parlato di un rapporto personale con Trump, mentre a precisa domanda aveva risposto di non ricordarsi quando aveva parlato l’ultima volta con Biden e di avere molte cose da fare.

In questo teatrino tragicomico, in cui si puntellano un tycoon cialtronesco che deve ritornare alla Casa Bianca per bypassare il cumulo delle sue imputazioni e un dittatore “eletto” che si appresta a riconquistare per la quinta volta il Cremlino libero da qualsiasi ostacolo, ha fatto irruzione ad un mese dal voto la morte in una colonia penale di Alexei Navalny.

Si tratta di una fine ampiamente annunciata per un detenuto già gravemente provato, che negli ultimi 2 mesi è stato trasferito in 4 celle di punizione in un carcere di massima sicurezza ai confini del mondo dove avrebbe dovuto scontare una condanna a 19 anni per il reato più intollerabile: aver impaurito il tiranno. In fondo, analogamente a quanto era accaduto per Anna Politkovskaja, si tratta di una morte “dilazionata” dopo essere sopravvissuto all’avvelenamento da cui l’avevano temporaneamente salvato l’asilo provvidenziale e le cure in Germania.

Da quando si era eroicamente riconsegnato ai suoi carnefici in Russia, aveva continuato a denunciare dal carcere la repressione e gli abusi del regime, a sostenere qualsiasi candidato liberale in grado di convogliare un po’ di voti per la fine della guerra in Ucraina, e probabilmente aveva messo in conto di non uscire vivo dal carcere. Poco importa che sia “morto per un malore” dopo “la passeggiata” al gelo in una cella senza tetto ed è possibile che si tratti di morte naturale, anche perché Putin non avrebbe un particolare interesse ad avvelenarlo una seconda volta in questo momento.

“Le conclusioni pronte” che il Cremlino rimprovera al pregiudizio occidentale sono fatti che confermano la fondatezza della cosiddetta gaffe di Biden quando ha chiamato Putin “assassino”.