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Dietro le quinte della guerra di Israele c’è il fattore atomica, mai preso in considerazione

Il governo di Bibi Netanyahu, lui ormai a fine corsa, allargato alle opposizioni ad ‘esecutivo di guerra’, si prepara all’invasione di terra della Striscia di Gaza con carri armati e copertura dal cielo di caccia F16. Strategia che provocherà centinaia se non migliaia di morti e un sisma geopolitico in tutto il Medio Oriente arabo. Il fatto è che la straordinaria potenza militare di Israele, colpita duramente dopo l’assalto di Hamas, va valutata in base a due fattori: la sproporzione delle forze in campo rispetto al nemico palestinese, e il livello di rabbia e voglia di vendetta degli israeliani, per gli oltre 1400 morti subiti.

Prevenire con la diplomazia un’ondata più ampia di violenza in tutta la regione non si può, Israele non vuole. Eppure il rischio di un conflitto allargato, fomentato dal possibile intervento sul fronte nord delle forze di Hezbollah finanziate dall’Iran, aumenta ogni ora. Se questo è lo scenario, dietro le quinte della guerra c’è un fattore mai preso in considerazione ufficialmente: le bombe atomiche possedute da Tel Aviv, novanta testate nucleari allocate in vari siti del deserto israeliano, come documento in dettaglio nel mio libro Terza Guerra Mondiale (Chiarelettere). Israele è l’unico paese, tra le nove nazioni del Club atomico (Stati Uniti, Russia, Cina, Gran Bretagna, Francia, India, Pakistan e Corea del Nord) a non aver mai ammesso di possedere missili atomici. Come non esistessero. Eppure pesano, e molto, tra le priorità di politica estera e strategia militare, soprattutto oggi, mentre la guerra di Israele per annientare Hamas entra nella fase più dura.

L’imperativo nazionale è sempre stato negare l’evidenza. Se il nucleare è un grande tabù ovunque, nella nazione ebraica lo è all’ennesima potenza. Questo silenzio o patto tacito ha anche un nome: in ebraico si chiama amimut, «opacità». La strategia militare imperniata sull’atomica si è dipanata dalla fondazione dello Stato a oggi. David Ben Gurion, leader dell’Organizzazione sionista mondiale, nel 1948 fondatore di Israele e primo a ricoprire l’incarico di premier, dissentiva dall’idea che Tel Aviv dovesse avere le bombe. La nazione, pensava Ben Gurion, era un’entità intrinsecamente fragile, circondata da nemici mortali con cui qualsiasi guerra era sconsigliabile se non con l’appoggio degli Stati Uniti. In seguito, i suoi successori ritennero che il supporto di Washington, pur essenziale e motivato, non sarebbe stato sufficiente per difendersi da nemici che lo odiavano: Israele sarebbe potuto sopravvivere solo grazie al possesso di bombe atomiche.

Già, opacità. Ma del resto, che abbiamo noi da recriminare sul fatto che gli israeliani non ammettono di avere bombe atomiche, se il governo italiano – tutti i governi italiani da decenni, di sinistra, centro e destra, fino alla Meloni – fa lo stesso e non ha mai detto la verità sulle 40 testate nucleari di proprietà degli Stati Uniti (e non della Nato) custodite nelle basi militari di Ghedi e Aviano?

La verità è che mentre infuria la guerra a Gaza, il tema di fondo resta l’Iran, anzi il nucleare iraniano, massimo obiettivo del regime degli Ayatollah. I rischi che la situazione sfugga di mano sono reali e molto alti, l’escalation è già in atto. Quel tipo di deterrenza reciproca che esisteva durante la Guerra Fredda e perdura anche oggi, dopo l’invasione russa dell’Ucraina, nello scontro ad alta tensione tra grandi blocchi geopolitici, cioè Stati Uniti/Nato, Federazione Russa e Cina, o in conflitti bilaterali come quello tra i due paesi nucleari confinanti dell’Asia, India e Pakistan, in Medio Oriente non funziona. Qui le trappole abbondano e i regimi sono instabili, c’è la presenza di entità non statali (Hamas ha vinto le elezioni a Gaza ma non rappresenta lo stato palestinese), da decenni rivalità storicamente radicate in etnie e religioni diverse e contrapposte accendono gli animi e influenzano le scelte dei leader.

L’Iran – che supporta politicamente e con i soldi sia Hamas che Hezbollah, come l’emirato del Qatar – è stato molto tenace nel suo decennale sforzo per avere l’atomica. Teheran ha resistito ad anni di sanzioni economiche durissime Usa+Ue che avrebbero messo a terra qualsiasi economia. Ha sopportato una sofisticata ed efficace offensiva degli israeliani, scatenata più che a suon di missili, di incursioni cibernetiche contro le sue infrastrutture strategiche. Ha subito plateali assassinii dei migliori scienziati atomici iraniani da parte di commando segreti del Mossad. Ma se si mettono sul tavolo gli obiettivi militari e strategici in Medio Oriente, il fatto più rilevante che condiziona tutto il resto non è che l’Iran vorrebbe la bomba, ma che Israele ce l’abbia, anche se non può usarla né ammetterlo per la sua policy di amimut (mai una sola parola alla Knesset, in Tv, o una riga sui giornali o sul web).

Che Tel Aviv decida attacchi aerei per distruggere le installazioni nucleari iraniane non è realistico, lo sforzo porterebbe quasi sicuramente ad un’aperta dichiarazione di guerra. Pur se le capacità militari israeliane superano quelle di qualsiasi altra potenza mediorientale, Israele dovrebbe comunque affrontare serie minacce. L’Iran risponderebbe a un attacco alle sue installazioni nucleari con una rappresaglia contro target dello stato ebraico, e forse contro i paesi che hanno permesso a Israele di usare il loro spazio aereo per raggiungere l’Iran. Nel frattempo, l’alleato libanese di Teheran, Hezbollah, inizierebbe a schierare i suoi 150.000 missili e razzi, che possono arrivare in ogni angolo di Israele. Il vulnerabile fronte interno, e forse alcune delle sue infrastrutture vitali, verrebbero colpiti duramente prima che la forza aerea israeliana neutralizzi Hezbollah, probabilmente a costo di radere al suolo il Libano (come sta accadendo a Gaza).

Un accordo internazionale è forse la migliore speranza di Israele – e del mondo – per impedire all’Iran di diventare una potenza nucleare. Ci aveva provato Barack Obama ma poi Donald Trump, d’impulso e senza razionalità come fa lui, ha disfatto tutto l’impianto dei negoziati di Vienna. Con la complicità dello stesso Israele (primo ministro era sempre Benjamin Netanyahu), Trump fece ritirare gli Stati Uniti dall’accordo nucleare del 2015, sebbene Teheran non avesse violato i suoi obblighi.

Con l’attacco a sorpresa di Hamas contro Israele del 7 ottobre 2023 la geopolitica ha avuto un’accelerazione improvvisa o, peggio, un gravissimo avvitamento a spirale le cui conseguenze per il Medio Oriente non sono ancora immaginabili. Nulla sarà come prima nei rapporti tra grandi potenze – Stati Uniti, Federazione Russa, Cina, il blocco dei paesi arabi, con l’Iran al centro. Israele giudica impensabile per la sua stessa sopravvivenza e per l’intera regione l’eventualità che l’Iran si doti di un’arma atomica. Lo stato ebraico pone quindi la questione nucleare in testa a ogni altra sua missione o obiettivo, ovviamente al di fuori del patto costituzionale e della politica ufficiale.

Il 3 novembre 2021, a Tel Aviv, alla cerimonia per celebrare la festa di Hanukkah con il presidente di Israele Isaac Herzog e il primo ministro (per un breve periodo non fu Netanyahu ma Naftali Bennett) in una rarissima apparizione in pubblico, il capo del Mossad David Barnea affermò: «Questo è il mio impegno; questo è l’impegno del Mossad: l’Iran non avrà un’arma nucleare. Non nei prossimi anni. Mai». Già. Ma Barnea, come tutta l’intelligence di Israele, con Netanyahu al potere, si trova intanto a gestire la peggiore crisi degli ultimi 75 anni, per non aver saputo prevenire il mortale assalto e lo smacco inflitto da Hamas. Errore capitale, per il quale il Medio Oriente rischia di deflagrare.