Diritti

‘Fu legittimo assegnare altri porti a Geo Barents’: per il Tar i naufraghi non sono tutti uguali

La sentenza storica.

Il Tribunale amministrativo del Lazio ha respinto il ricorso della nave Geo Barents contro l’assegnazione, ritenuta vessatoria dai volontari di Medici Senza Frontiere, dei porti di Ancona e La Spezia per lo sbarco dei naufraghi. Quegli ordini costrinsero la nave, reduce da due diversi soccorsi, a compiere ulteriori giorni di navigazione, quando la norma internazionale (punto 3.1.9 dell’Annesso alla Convenzione di Amburgo Sar del 1979) impone di “adottare le disposizioni necessarie affinché lo sbarco in questione abbia luogo nel più breve tempo ragionevolmente possibile”.

La ragionevolezza non può essere misurata che con riguardo agli aspetti tecnico-nautici e, trattandosi di soccorso, anche alle condizioni in cui versano i naufraghi: non soltanto alle conclamate situazioni di pericolo (sopravvissuti in gravi condizioni, donne incinte, bambini), ma anche al disagio fisico e psichico in cui versano persone già fortemente provate, certamente suscettibile di complicazioni durante il viaggio in nave.

Non possono essere invece invocate le esigenze, pure imprescindibili, di predisporre un’adeguata accoglienza e quelle di ordine pubblico, condizioni che il ministero dell’Interno può comunque predisporre e che dovrebbero essere soddisfatte in modo strutturale, come fece la Guardia costiera a partire dal 2011 nei porti del Sud, approntando nuovi assetti di soccorso nei luoghi più esposti alle necessità di intervento.

La Convenzione impone dunque allo Stato responsabile di disporre lo sbarco rapido e, coerentemente, la Corte di Cassazione, esprimendosi sul caso Rackete (decisione 6626/2020) affermò che il salvataggio non può esaurirsi con il recupero dei naufraghi a bordo, perché la permanenza sulla nave “non consente il rispetto dei diritti fondamentali delle persone soccorse”.

Argomenti che la pronuncia del Tar ha richiamato, ma disattendendoli e facendo proprio l’indirizzo di un Tavolo tecnico tenutosi nel 2015 presso il Viminale: una tappa amministrativa molto marginale rispetto agli orientamenti unanimemente espressi in senso contrario da norme e giurisprudenza. In occasione di quell’incontro, i funzionari delle amministrazioni coinvolte ridussero il soccorso dei migranti ad una specie minore degli interventi sul fenomeno migratorio, di fatto asserendo la priorità delle attività di polizia (low enforcement) su quelle del salvataggio.

Già allora le unità del salvataggio civile, prima cooperanti con le unità istituzionali e sotto il loro coordinamento, erano state additate dal governo come elementi eccentrici al sistema, se non addirittura ostili.

Sono eloquenti le misure nel tempo adottate nei loro confronti: le penetranti ispezioni e il fermo delle navi che la Corte europea di giustizia (casi C-14/21 e C-15/21) ritenne poi ingiustificati; l’assimilazione della condizione di naufrago a quella del passeggero, con la conseguente imposizione degli apprestamenti obbligatori per le navi commerciali; la considerazione dell’eventuale, ulteriore soccorso come un discrezionale (e inopportuno) prolungamento della spedizione.

Infine, appunto, l’assegnazione di porti lontani, per la cui rotta sono necessari ulteriori giorni di navigazione, anche in condizioni di mare ostile.

Una sentenza storica, ha detto il governo, e probabilmente lo sarà. Per la prima volta viene sancito, infatti, che i naufraghi non sono tutti uguali, come la Costituzione impone, e che ai migranti è rivolto un trattamento diverso da quello riservato a chiunque altro.