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Il giorno in cui New York è diventata Nuova Delhi. Eppure, mi dico, siamo privilegiati

di Chiara Bottici *

Martedì sera: è il mio turno e sto preparando la cena. Mio figlio diciasettenne entra in casa e mi dice: “Mamma, chiudi tutte le finestre”. “Perché?”, chiedo. “Guarda fuori: non si respira”. Da giorni avevo visto quegli “Air quality alerts”. “I fuochi del Canada”, mi dicevo, “ma qui siamo a New York.” Ed invece adesso ci ritroviamo anche qui, tutti chiusi in casa, “dov’è tua sorella?”, recuperiamo i pezzi della famiglia e poi ci attacchiamo alle news. “Ma sarà così grave?”. Sono le 8 di sera: “Air Quality Index 160: Unhealthy Air”, dice il mio telefono. Pare sia il peggio: domattina, le cose dovrebbero migliorare, dicono le news, ma non è sicuro. Potrebbero pero’ poi addirittura peggiorare. Forse dobbiamo aspettare il fine settimana per vedere un chhiaro miglioramento.

Mercoledì mattina: io dovrei partire per convegno a Toronto, proprio in Canada, ma a Toronto l’aria sembra meglio, quindi forse vado. Qui a New York le scuole pubbliche hanno cancellato tutte le attività outdoor: per fortuna, perché mia figlia aveva la finale del torneo di calcio, e lei mi ha detto che a quella proprio non poteva mancare e sarebbe andata a tutti costi. Grazie quindi Mayor Adams per aver cancellato gli sport all’aperto perché io non avrei potuto partire sapendola a correre per due ore sotto quest’aria irrespirabile.

Ma è davvero così irrespirabile? Il mio compagno vuole uscire per vedere com’è la situazione: “Per favore metti una mascherina”. “Non ne abbiamo più: è da un po’ di tempo che non le usiamo”. Ne trovo alcune nella mia borsa: una per ciascuno, la figlia e il figlio che vanno a scuola con la metro (ma perché sono aperte? E come fanno quelli che devono camminare fino a scuola ad arrivarci incolumi?), il mio compagno che va a vedere com’è (ma non lo vediamo già qui dalla finestra? Metà gente con la mascherina e metà senza).

Dopo mezz’ora lui torna con cibo e nuove mascherine ed un resoconto delle interviste impromptu che ha fatto chiedendo alla gente per strada cosa pensava e percepiva (fa il sociologo e lo storico di professione: anche in mezzo alla crisi). Chi doveva portare fuori comunque il cane dice che non è troppo male, ma tengono la mascherina, altri dicono di avvertire la pesantezza dell’aria e gli occhi che pizzicano, e poi c’è anche chi, come uno dei “delivery boys”, seduto sulla panchina accanto alla bici elettrica per le consegne, con la sigaretta in bocca, che risponde: “Which fumes? Which emergency?”.

“Air Quality Index” ancora sotto i 200, da Toronto arrivano notizie incoraggianti: “Qui non è troppo male, perché c’è il lago”. Faccio un po’ di ricerche su Google: a Toronto va bene e qui a New York siamo sotto i 200 che forse è ok, perché ci sono posti, come Nuova Delhi, in cui, in certi momenti, l’indice ha toccato i 500, come quando inquinamento e stagione dei monsoni si assommano. E quindi parto per l’aeroporto, ma prendo un Uber, perché non voglio dover camminare fino alla metro con quest’aria irrespirabile. Dentro alla macchina, con l’aria condizionata, si sta infatti benissimo, meglio che a casa mia: mi levo la mascherina tiro un sospiro di sollievo. Sull’aereo, dove l’aria è filtratissima, si starà ancora meglio. “Ah, qui nella tua macchina con l’aria condizionata si respira bene!” dico al conducente: “Da dove vengo io, è sempre così, ma non ci facciamo caso,” mi risponde. “Non ci sono neanche le strutture per rilevare l’inquinamento. Con tutti quei vecchi motori e motorini che vengono dall’India”. Gli chiedo da dove viene esattamente: “Karachi”, mi risponde, “it’s very bad there, but maybe not as bad as New Delhi”.

Guardo sul mio telefono quali sono le città più inquinate del mondo. Trovo Nuova Delhi. E poi mi guardo attorno: abbiamo lasciato Park Slope ed i quartieri benestanti di Brooklyn ed attraversiamo adesso a Brownsville, quartiere molto più povero, prevalentemente di colore: qui nessuno ha la mascherina. Neanche la gente in quella lunga fila davanti a quel tendone che distribuisce non so cosa: forse proprio mascherine?

Arrivo all’aeroporto e scopro che il volo ha un piccolo ritardo. Ma tutto sembra normale, a parte quella patina lattiginosa che rende tutto giallastro là fuori. Finalmente ci imbarcano: siamo pronti per partire e quando annunciano che il volo sarà più corto del previsto, mi dico “peccato, perché sull’aereo l’aria sarà buona”. Ma non appena arrivati sulla pista di partenza, l’annuncio inaspettat: “Cattive notizie, c’è un malfunzionamento imprevisto con il computer e dobbiamo provare a resettare il tutto”. La ventilazione smette di funzionare. L’aereo puzza di fumo. Alcuni cominciano a tossire. L’irritazione dagli occhi e dalla gola, che mi era già iniziata la sera prima, scende adesso nel petto, e non riesco più a respirare. Niente si muove. Poi confermano il guasto al computer dell’aereo e ci riportano al gate, dove chiedo di poter scendere il prima possibile. Chiamano l’assistenza medica.

Mentre aspetto che arrivi al gate, c’è gente che panica e chiede cosa sta succedendo: “Hanno chiuso altri aeroporti, ma qui i voli continueranno?”. Uno dei passeggeri del mio stesso aereo chiede di essere spostato su un volo per San Francisco. Ma non andava a Toronto, mi dico? San Francisco è nella direzione opposta. Evidentemente, un uomo solo, con valigetta d’affari, può permettersi di volare via da questo inferno.

Uno dei due dottori nell’ambulanza, entrambi con duplice mascherina, mi informa che tutta la città è ormai in quella situazione. Persone come me, che soffrono di allergie, lo sentono ancora di più, ma tutti lo sentono in un modo o nell’altro. Mi misurano pressione, ossigeno, tutti parametri vitali, che sono decenti. “Vuoi che ti portiamo all’ospedale? Non è che ti faranno niente altro che darti qualche medicazione contro le allergie”. Gli ospedali saranno strapieni, mi dico. Meglio tornare a casa allora, dalla mia famiglia. “Cosa devo fare se non vado all’ospedale?” chiedo al dottore. “Zyrtec o cosa altro prendi per le allergie e stai fuori dal fumo”. Esco dall’ambulanza per dirigermi ai taxi. L’aria è ancora più irrespirabile, il grigio bianco di un ora prima è diventato adesso arancione marrone.

Mi mettono su un taxi giallo, di quelli tradizionali. Almeno c’è l’aria condizionata. Il guidatore, però, anche lui indiano o pakistano, come intuisco dall’accento, continua a tossire. Aveva il finestrino aperto. Gli suggerisco di chiuderlo. Scrivo ai miei che sto tornando a casa. “Lì tra un ora, ci dice il Google maps”. Guardo il mio telefono: “Air Quality Index 300”. Il conducente, un piccolo uomo sulla sessantina, continua a tossire: gli do una mascherina e suggerisco di non aprire più il finestrino e magari di chiudere anche i bocchettoni dell’aria. Lui dice che non importa. Mi guardo attorno: l’atmosfera è surreale.

Nei quartieri dove i fumi si mescolano allo smog delle machine, l’aria è ancora più densa che all’aeroporto. Mi ricordo di aver letto che le particelle prodotte dal legno bruciato non sono infatti così tossiche come quelle prodotte da legno: il problema è quando le due si mescolano, e questo avviene nei quartieri più esposti, che spesso sono anche i più poveri. Vedo uccelli che volano come impazziti poco sopra gli edifici, molto più bassi che al solito. Adesso quasi tutti quelli per strada hanno mascherine. Anche a Brownsville.

Non appena ci si avvicina ai quartieri che circondano a Prospect Park, quel gigantesco parco nel cuore di Brooklyn, che è parte della foresta originaria, l’aria diventa di nuovo più trasparente. Si riesce a vedere di nuovo. Forse che le piante, al contrario degli uccelli, riescono ad assorbire tutto questo smog? Mi sento infinitamente grata a tutti gli alberi di Brooklyn.

Finalmente a casa. Racconto la mia storia. “Dovevi vedere Manhattan, mamma! Sembrava l’apocalisse”. Mio figlio mi racconta che sulla metro la gente distribuiva mascherine perché si sentiva odore di bruciato ed in molti non le avevano con sé. Avevo letto che l’MTA [agenzia della metropolitana] distribuiva K95 ai suoi impiegati. “Pensa ai poveri conducenti delle metro, intrappolati in quei cubicoli, in un sistema sotterraneo dove un treno su due non è dotato di filtri d’aria appropriata”, continua mio figlio. “Ma cosa altro fare? Fermare la città?”. Forse avrebbero dovuto chiudere almeno le scuole, mi dico, ma l’abbiamo già visto con il Covid: a New York quelle sono le ultime a chiudere.

Nella scuola di mio figlio, the La Guardia High School a Manhattan, dove si contano circa 2500 studenti, si stava bene fino a verso le 2 del pomeriggio, quando anche dentro all’edificio si è iniziato a percepire lo smog. Storia simile quella di mia figlia, che invece frequenta la Brooklyn Tech, dove gli studenti sono 6000. “It was surreal. We went inside the classroom as usual at 8.30, and everything seemed normal, but then the sun started to change and the suddenly all was orange and we could no longer concentrate. What the hell is going on?”. Studenti e studentesse eravamo a guardare la finestra e fare fotografie. Ma gli insegnanti hanno continuato a fare lezione, eccetto che, per l’ora di ginnastica, non hanno potuto avere accesso alla palestra, perché si era riempita di fumo, e quindi l’hanno fatta nei corridoi.

Ci scambiamo racconti. Sono le 5 del pomeriggio e prendo in mano il telefono per guardare di nuovo all’ “Air Quality Index”. Mi ricordo di quando guardavamo i numeri dei contagi Covid. Il mio compagno mi dice: “Non guardare adesso! Le notizie non sono buone”. Siamo infatti a 478. Cosa facciamo? Air Canada mi ha messo su un volo per il giorno dopo: ma voglio rimettermi in quella situazione? Partiranno gli aerei? E che succede con le scuole e le alter attività programmate per domani? Ci mettiamo a guardare le news per capire un po’ di più. “New York è la città più inquinata al mondo. Questo pomeriggio l’indice ha toccato i 480, mentre a Nuova Delhi, per darvi un’idea, era 130”. Mi chiedo se non dovremo affittare una macchina ed uscire dalla città, andare il più lontano possibile, dove si respira un po’ meglio. Ma non si sa neanche esattamente dove andare perché ancora non è chiaro dove le nubi tossiche si stanno dirigendo.

Penso all’uomo d’affari che da Toronto si è dirottato su San Francisco, dove di sicuro non ci sono nubi per adesso. E poi l’altro che doveva andare in Islanda, ma invece è tornato in Florida: mi aveva mostrato le foto che gli mandava sua moglie da una bellissima spiaggia accanto a cui abitano. E penso ai lavori del filosofo ecologista Kyle Whyte. Secondo il filosofo Anishinaabi, per affrontare il cambiamento climatico dobbiamo prender ispirazione dai nativi americani e dal loro sistema di governance attraverso le migrazioni: bisogna seguire i cicli naturali, quelli delle stagioni anzitutto, ma poi anche quelli creati da eventi straordinari, essere flessibili e pronti a migrare, cambiando programma a seconda di quello che avviene attorno. Per secoli, la sua nazione ha fatto così, anche dopo la catastrofe generata dall’arrivo dei bianchi.

Quando l’incontrai a New York, per una conferenza su “Philosophy and Coloniality” che avevo organizzato, il suo intervento era stato davvero illuminante: “Per il mio popolo l’apocalisse è già avvenuta: la distruzione dell’ambiente naturale, delle nostre terre e tradizioni, e persino quella del mio popolo è iniziata nel 1492. Sono secoli che viviamo la catastrofe, non da cinquant’anni fa, quando l’uomo bianco ha iniziato a parlare di global warming”.

Svegliandomi stamattina, con AIQ sceso a 200, tiro un sospiro di sollievo. Esco per vedere com’è la situazione, ma dopo pochi passi, anche con la mascherina, gli occhi pizzicano ed allora rientro. Sulla porta di casa incontro il mio vicino, con sua figlia di 5 anni, entrambi con mascherina, lei attaccata al muro, che non vuole uscire. Gli chiedo come va: “Un altro giorno in questo hellscape!”, risponde il padre. “Contento che abbiamo trovato un modo di usare di nuovo le mascherine K95: ce ne erano rimaste tantissime dal Covid”. Ci sorridiamo a denti stretti. Sua figlia, nonostante la mascherina con tutti i paperini, evidentemente non è proprio contenta di poterla di nuovo usare. Eppure, mi dico, siamo privilegiati. Forse non quanto l’uomo d’affari che se n’è scappato a San Francisco, o l’altro che sarà adesso sulla spiaggia in Florida. Ma privilegiati tra quelli che sono rimasti a New York in giorno in cui la città è improvvisamente diventata Nuova Delhi, la città più inquinata al mondo.

Leggendo il New York Times scopro infatti che ieri, in certe zone, è stato misurato un picco di 868 AIQ, eppure, in nessuna parte della città, da quello che leggo, si sono fermate le home deliveries, e le altre attività economiche che implicano di stare all’aria aperta. Fenomeni come questi stanno diventando la nuova normalità: dobbiamo prepararci e forse imparare l’arte della flessibilità proprio da chi la catastrofe l’ha già attraversata. Anche chi crede di essere a New York, sulla spiaggi in Florida o San Francisco, può ritrovarsi nel giro di poche ore a Nuova Delhi. Siamo adesso davvero tutti sulla stessa barca, ma alcuni di noi hanno cabine di lusso, altri addirittura un jet privato con cui volare via all’occorrenza, ma in molti stanno ancora lavando i ponti della nave, e nessuno li ha neppure informati che potrebbe affondare molto presto.

* Filosofa presso la New School for Social research di New York