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Nei colloqui tra Zelensky e Zuppi ritorna centrale la pace giusta in Ucraina aborrita da Putin

Il “dialogo esplorativo” tra il cardinale Zuppi inviato di Papa Francesco e Volodymyr Zelensky a Kiev è stato definito un “incontro positivo” da entrambe le parti e, dato alquanto significativo, “la formula di pace ucraina e il raggiungimento della pace giusta sono stati al centro della comunicazione”, secondo quanto ha riferito l’ambasciatore ucraino presso la Santa Sede Andrii Yurash.

Naturalmente l’incaricato del Papa riferirà solo al Pontefice e per ora, precisano dal Vaticano, si tratterebbe di un’iniziativa che “ha come scopo principale di ascoltare in modo approfondito le autorità ucraine circa le possibili vie per raggiungere una pace giusta e sostenere gesti di umanità che contribuiscano ad allentare le tensioni.” Primo fra tutti il ritorno a casa dei bambini deportati in Russia per essere russificati, 16.226 secondo Kiev, e dei prigionieri civili prelevati con la forza dai territori occupati, oltre allo scambio di prigionieri.

Il cardinale Zuppi prima di raggiungere Kiev ha voluto visitare e rendere omaggio alle vittime di Bucha, luogo simbolo dell’orrore, dei massacri, delle torture, della manipolazione mediatica e della pretesa negazionista messa in atto dal regime putiniano, sciaguratamente amplificata da troppi pseudopacifisti nostrani, da cui si attendono ancora, invano, le scuse.

Un segnale che sembrerebbe andare nella direzione del pieno riconoscimento per l’Ucraina di stato di aggredito e per i suoi abitanti, tra cui si contano secondo i dati Onu almeno 8.983 civili uccisi dall’inizio dell’invasione, di “popolo martoriato”, secondo la definizione divenuta abituale di Papa Francesco. Con la postilla non irrilevante che “se c’è un popolo martoriato” c’è qualcuno che lo martirizza.

Al momento l’eventualità che in tempi brevi l’emissario del Papa possa vedere il presidente Vladimir Putin, il ministro degli Esteri Sergei Lavrov e il patriarca ortodosso Kirill è stata smentita dal portavoce del Cremlino Dimitry Peskov come “non in programma”. E se il segretario di stato vaticano Pietro Parolin aveva dichiarato nei giorni scorsi che si sarebbe iniziato dall’approccio con le due capitali, Kiev e Mosca, da fonti vaticane trapela che anche se una trasferta verso Mosca sarebbe “in fase di preparazione” le tempistiche al riguardo rimangono “imprevedibili”.

Con parole meno diplomatiche e avendo presente il precedente siluramento da parte di Mosca alle iniziative di pace vaticane, non appena Francesco alla “equivicinanza al dolore delle madri ucraine e russe” ha accostato la denuncia inesorabile per gli orrori di Bucha, si può per ora constatare che la disponibilità di Putin è ipotizzabile solo per una “pace” che ratifichi la sua aggressione e che gli garantisca l’impunità per ogni crimine.

Solo pochi giorni fa lo scorso 13 maggio avevano suscitato reazioni al limite dello sdegno, da parte della variopinta galassia pacifista, le parole chiare e nette di Zelensky, quando dopo l’udienza con Francesco aveva detto: “Il cessate il fuoco e il congelamento del conflitto non porteranno alla pace”. Si è gridato allo scandalo, quasi si trattasse di un reato di “lesa Santità” non da parte della chiesa e del mondo cattolico, e si è messa all’indice la protervia e l’arroganza del guitto bellicoso che è divenuto una star coccolata dai “grandi della guerra”.

Oltre alle considerazioni di ordine strategico in merito ad un temporaneo cessate il fuoco, che senza un almeno parziale ritiro delle forze di occupazione significherebbe solo un’opportunità di riorganizzazione e rafforzamento per gli invasori in un momento di particolare difficoltà, bisognerebbe domandarsi di quale pace stiamo parlando.

Sull’inscindibilità del rapporto tra pace e giustizia si è soffermato più di una volta Vito Mancuso, un teologo, che è ripartito da Tacito e dalla pax romana di cui quella putiniana sembra una tagica caricatura: “Rubano, massacrano, rapinano e, con falso nome lo chiamano impero, e dove fanno il deserto, dicono che è la pace”. E la domanda – avendo sotto gli occhi gli effetti della “terra bruciata” da Mariupol a Bakhmut, l’annessione con deportazioni e legge marziale nel Donbass, la pretesa di smembrare uno stato sovrano dopo aver fallito nella sua totale sottomissione – è se esiste la volontà di realizzare qualcosa che possa assomigliare ad una “vera pace”. E non può esserlo la pace intesa come “pacificazione scaturita dall’imposizione della forza e cristallizzazione dell’ingiustizia”. (Vito Mancuso, La Stampa, 16/1/2023).

Mentre l’inviato del Papa era a colloquio con Zelensky per tentare almeno di “creare un’atmosfera di pace” e si parlava anche della “necessità di coinvolgere il maggior numero possibile di paesi, compreso il Sud del mondo, nel vertice globale per la pace”, i missili di Putin continuavano a piovere su Kiev. E nelle stesse ore nell’area di Kherson le persone stavano fuggendo da un’esondazione di proporzioni enormi causata dall’esplosione interna alla centrale idroelettrica di Kakhovka, controllata da Mosca, sotto i colpi dell’artiglieria russa che non smetteva di sparare. En passant, le autorità russe che si stanno scagliando contro “i terroristi di Kiev” hanno riempito la diga, tra le più grandi d’Europa, fino al limite massimo della capienza e i danni ambientali si prevedono catastrofici.

Dalle poche ore della sua intensa trasferta in Ucraina, il cardinale Matteo Zuppi ha ricavato, per riferirli al Papa, oltre i risultati dei colloqui anche “l’esperienza diretta dell’atroce sofferenza del popolo ucraino a causa della guerra”; materiale senz’altro utile per i passi da compiere “sia a livello umanitario che nella ricerca di percorsi per una pace giusta e duratura”.

E va registrato positivamente che pure se in un contesto diplomatico, nell’ambito di una missione generosa quanto impervia, l’inviato di Francesco ha implicitamente superato la citazione di Erasmo che aveva usato lo scorso febbraio: “Meglio una pace iniqua di una guerra equa”. Chissà, forse anche memore di un concetto espresso dal Concilio Vaticano II: “La pace non è la semplice assenza della guerra, né può ridursi al solo semplice rendere stabile l’equilibrio delle forze contrastanti, né è effetto di una dispotica dominazione, ma viene definita con tutta esattezza ‘opera della giustizia’.” (Vito Mancuso, ibidem).