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Se Londra piange, Roma non ride: cosa insegna la crisi del Regno Unito post Brexit

La crisi economica che investe il Regno Unito, in dimensioni mai viste nemmeno alla fine degli anni settanta, ha una serie di cause da rintracciare almeno dall’uscita del paese dall’Unione europea. La prospettiva di un luminoso sviluppo economico e di una maggiore incidenza nella politica internazionale, a cui avrebbe dovuto condurre la Brexit, non solo si è rivelata illusoria, ma si è progressivamente manifestata in una opposta direzione di declino.

Per quanto l’Unione europea non sia esente da difetti, ipocrisie ed egoismi nazionali mal temperati (basti osservare l’incapacità di definire un tetto massimo al prezzo del gas), è apparso al tempo stesso chiaro, dopo l’esperienza britannica, che l’abbandono dell’Unione non è la soluzione. Sullo scotto di questa lezione, si è affievolito l’antieuropeismo più radicale nel resto del continente. L’approccio euroscettico guarda ora non a un’uscita secca dall’Ue, ma piuttosto a un ridimensionamento delle prerogative di Bruxelles.

Dal 2016 il Regno Unito attraversa la fase di maggiore instabilità della sua storia con sei governi in sei anni. L’ultima fase di turbolenza si era registrata dal 1922 al 1924 quando si alternarono cinque Esecutivi. Come in ogni situazione di precarietà, le cause sono plurime. Innanzitutto la Brexit ha coinciso con forti politiche di impronta centralista attuate dal partito conservatore, in opposizione a una linea di maggiore autonomismo (devolution) realizzata nei tredici anni di governo laburista dal 1997 al 2010.

Il centralismo dei conservatori ha rinfocolato i partiti separatisti di Galles, Scozia e in parte anche dell’Irlanda del Nord che si sono sentiti frustrati nel loro desiderio di autonomia. Boris Johnson è stato definito dal “New European” “il miglior agente dell’indipendentismo del Galles e della Scozia”. Una brace sotto la cenere destinata a pericolose accensioni divenendo un fattore di instabilità politica e sociale. Il solco tracciato da Johnson ha ambito a rappresentare (ma non a realizzare) un progetto di Global Britain, ovvero un paese forte nel mondo il cui prestigio crea un soft power che ne accresce l’influenza.

Dal punto di vista delle relazioni internazionali, si è tentato di percorrere la strada di maggiori rapporti con India, Australia e Giappone. La linea di attuazione della Global Britain ha visto un rafforzamento delle spese per la difesa (tagliando gli organici ma lavorando sulla produzione di armi evolute), unitamente a una valorizzazione del comparto della sperimentazione tecnologica sfruttando poi in termini di immagine il contributo fornito per la realizzazione del vaccino anti Covid Astrazeneca.

Nella realtà la Brexit ha portato a una riduzione degli investimenti stranieri (e non il suo contrario come si propagandava) e a una diminuzione dell’impegno dello Stato in tutti i livelli dell’istruzione. Il rallentamento dell’economia britannica appare agli analisti un elemento strutturale, non legato a effetti momentanei. Nei 13 anni laburisti (1997 – 2010) la crescita del Paese è stata seconda solo agli Stati Uniti. Ora la locomotiva britannica avanza frenando con un andamento al ribasso iniziato già nel 2009.

L’inflazione è al 10% per le stesse cause globali (uscita dal Covid e guerra in Ucraina) che attanagliano il resto dell’Europa. Le prospettive per il Regno Unito appaiono più fosche rispetto alla media europea con un’inflazione stimata a gennaio sopra il 18%. A fronte di queste cause strutturali, le risposte della politica sono apparse pericolosamente fuori da ogni lettura della realtà. La debolezza dei leader che si sono succeduti (Cameron, May, Johnson, Truss) ha origine da questa mancata presa d’atto, nutrita di ricette liberistiche antistoriche nell’incapacità di valutare le congiunture interne e internazionali.

Liz Truss, al governo da appena un mese, appare una leader già bruciata da promesse irrealizzabili, affascinata dalla vecchia fasulla ricetta che tagliare le imposte ai più abbienti significhi creare ricchezza nell’intero sistema. Il governo conservatore vive un’impopolarità ai massimi storici: se si votasse oggi i Tories nel Parlamento sarebbero un’esigua minoranza. La sconfitta però è di una politica che sa soltanto guardarsi indietro. Emergenze nuove richiedono risposte nuove. Il passato ci può mettere in guardia dagli errori, ma non offre soluzioni al presente.

La coesione sociale in Gran Bretagna è minata da più movimenti non omogenei tra loro: il “don’t pay” contro le bollette, gli ambientalisti che reclamano provvedimenti che invertano la tendenza al cambiamento climatico, i sindacati che hanno ritrovato un’inaspettata forza di mobilitazione come non si vedeva dagli anni Settanta. Anche se la Gran Bretagna non è più nell’Unione europea è sempre vicina a noi e la sua crisi può insegnarci qualcosa.