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Putin e la minaccia nucleare di un pokerista stretto all’angolo: quali carte vuole giocare, quali mosse ha fallito (per ora)

“L’Occidente” che Vladimir Putin chiama “collettivo”, secondo il presidente russo, “sta per crollare”. La mega festa allestita venerdì 30 settembre dal Cremlino a Mosca e nelle principali città russe per celebrare l’annessione delle quattro oblast secessioniste ed ormai divenute parti integranti del territorio russo (grazie a referendum farlocchi) pari al 15 per cento dell’Ucraina, è stata il grottesco e propagandistico contorno di un regime sempre più incancrenito nella crociata putiniana per ridare a Mosca l’egemonia perduta con la dissoluzione dell’impero sovietico. Da oggi, dunque, gravita concreta più che mai, sull’Europa e sul mondo intero la spada di Damocle della minaccia nucleare, quale ultimo bluff di un pokerista ormai stretto all’angolo perché smascherato.

E sbugiardato: perché se è vero che l’Occidente mostra spesso e volentieri divisioni e contrasti, è anche pur vero che grazie a Putin e alla sua scellerata scelta bellica spacciata per rapida operazione “speciale” (con l’alibi di voler cancellare il presunto regime nazista di Zelenski), si è ricompattato ed è determinato a risolvere la questione ucraina garantendo a Kiev appoggio militare sofisticato (e i capitali per sopravvivere). Persino quei cavalli di Troia politici sistemati in Europa con lo scopo di destabilizzarla, si stanno rendendo conto della pericolosa deriva putiniana e della palese impopolarità che hanno le le loro posizioni conflittuali: restano, tuttavia, ancora vigorosi gli apparati dei dispositivi d’influenza che Mosca ha allestito nel corso dell’ultimo decennio per alimentare il sostegno alle sue politiche o, almeno, per veicolare analisi indulgenti nei confronti della Russia, senza ottenere però la fine delle sanzioni.

L’Occidente demonizzato dal leader di Mosca, dopo anni di pavida inazione, sta prendendo le misure nei confronti di una Russia la cui immagine si è rapidamente deteriorata in questi ultimi mesi e le cui debolezze sono emerse impietosamente: quelle militari, innanzitutto, frutto di incompetenze, corruzione, natura criminale. È emersa la catastrofica mancanza di disciplina e di motivazione delle truppe, la bassa qualità del loro equipaggiamento, il disorientamento dei ranghi costretti ad operare come delinquenti (terribili le testimonianze raccolte dalle telefonate intercettate dei soldati quando parlano coi familiari).

Il quadro è ancor più inquietante se osserviamo anche la fragilità strategica e diplomatica di Mosca, l’incapacità di escogitare una via d’uscita dalla tragica spirale dell’escalation innescata il 21 settembre con la mobilitazione (quasi) generale che ha scatenato la fuga di centinaia di migliaia di russi dal loro paese, proteste di piazza, sconcerto e forti segnali di dissenso popolare proprio tra quella massa imbevuta di propaganda putiniana – i vatniki, ossia gli “ovattati” – che credevano d’essere coperti dalle promesse e dal bombardamento mediatico del Cremlino, per ritrovarsi d’improvviso senza quel mantello protettivo. Carne da macello. Poveracci mandati allo sbaraglio. Non a caso, il giorno dopo il decreto di Putin, Zelenski si è rivolto (in russo, perché i mobilitati capissero) a costoro dicendo: “Potete protestare, sollevarvi, fuggire o arrendervi all’esercito ucraino: ecco le vostre opzioni per sopravvivere”.

Inoltre, non si può dire che Putin sia imprevedibile. Anzi. Vladimir Vladimirovic, alla vigilia dei suoi cruciali settant’anni, ha sempre annunciato quel che avrebbe fatto. Fin dal giorno in cui è diventato premier, nel 1999, scatenando la seconda guerra cecena, coi suoi orrori e distruzioni. Poi, dopo avere illuso l’Occidente a cui erogava gas e petrolio, ha cominciato nel 2008 con l’Ossezia del sud tolta alla Georgia, ha atteso altri sei anni per accaparrarsi la Crimea – annessa con un referendum sulla “riunificazione” nel 2014 – e per foraggiare ed armare la secessione del Donbass e dell’oblast di Donetsk, in cui sono stati inscenati due referendum sull’autonomia da Kiev, con percentuali più che bulgare (rispettivamente dell’89 e del 96 per cento).

Il copione si è ripetuto questa settimana, e Putin, con enfasi e cipiglio da “uomo forte”, lo ha rivendicato: “Gli abitanti di Lugansk, Donetsk, Kherson e Zaporija diventano nostri cittadini per sempre”. La popolazione “ha votato per condividere il nostro avvenire comune”. Una “scelta senza equivoci”. Quindi, “difenderemo la nostra terra con tutta la nostra forza e i nostri mezzi”. Se qualcuno non avesse inteso, ecco pronto il sodale Dmitri Medvedev, divenuto il falco dei falchi, a esplicitare il detto-non-detto di Putin: ”La terza guerra mondiale è più vicina”. Bisogna spaventare gli europei. Devono tremare di paura. L’incubo nucleare li bloccherà.

Il caro bollette li spingerà a chiedere di lasciarci fare quel che vogliamo, li teniamo alla canna del gas…agli occhi di Mosca, la guerra cambierà di natura – a suo favore, naturalmente…il web ribolle di queste considerazioni, i social network sono inzuppati di timori mica per il destino degli ucraini ma per la possibilità realistica di dovere abbassare di un grado il riscaldamento delle case, di pagare un’energia sempre più esosa “per colpa di Kiev” (l’ho letto). Il soft power russo usa queste subdole forme di pressione. Usa la violenza per impadronirsi dei territori di altri Paesi. E la persuasione occulta per crearsi l’impunità. Come la vernice ideologica antioccidentale e la pseudoguerra di civiltà, che pure trovano anche da noi tanti fan.

Il fatto è che Putin punta sul logorio del fronte occidentale, sulle divisioni tra alleati della Nato, sull’esplosione del malcontento. Ha azzardato una mossa che potrebbe essergli fatale: ha bruciato i ponti che gli avrebbero potuto permettergli un arretramento, senza perdere troppo la faccia, nonostante i crimini di guerra che gli vengono addebitati (e che la Storia, comunque, gli lascerà in eredità). Così non fa altro che trascinare la Russia sull’orlo del precipizio: ma non illudiamoci. La guerra purtroppo durerà a lungo, peggio, rischia di cambiare format, ed è inutile sperare in una rivolta di Palazzo, le élites che potrebbero rovesciare Putin sono frantumate, disperse, in esilio, in galera. Attorno a Putin si sono arroccati gli “uomini della Forza”, i siloviki (l’apparato poliziesco, militare, i ministeri chiave dell’Interno, degli Esteri, l’industria militare, la polizia di frontiera: milioni di persone che sono organiche alla “verticale del potere” e alla democratura instaurata da Putin). I veri pericoli, per lui, arrivano dai militari e dagli ambienti ultranazionalisti che vorrebbero usare tutto il potenziale militare (anche l’arsenale nucleare tattico) per risolvere la “pratica Ucraina”.

Putin doveva pur dare qualcosa in pasto a costoro. Per esempio, la messa in scena di venerdì, le tracotanti minacce. Anche il feroce e spietato attacco dei missili lanciati sui convogli di civili con decine di morti. Per l’Occidente, la lettura di tutto questo è un inquietante punto di non ritorno: “L’America e i suoi alleati sono pronti a difendere ogni centimetro del territorio ucraino”, ha ammonito Biden, e che altro poteva dire, se non parole minacciose quanto quelle del suo collega russo? Siamo vittime di queste strategie d’intimidazione… L’annessione delle quattro oblast ucraine sono certamente un atto formale, ma in un solo senso, perciò non legittime, secondo la comunità internazionale che ha contestato i referendum. Però, il fatto in sé dell’annessione ha un enorme peso politico. Traduco: vuol dire che su quei territori non si può più negoziare. E quando Putin propone eventuali negoziati, è uno specchietto per le allodole, al massimo si ridurranno a discussioni (sterili) sulle modalità e le garanzie di sicurezza, soprattutto sul disarmo dell’Ucraina. Il che era assurdo ed improponibile già la sera del 24 febbraio, figuriamoci oggi e ancor di più nei giorni a venire.

L’ambiguità cresce, poi, nell’analizzare i riferimenti putiniani alle bombe sganciate dagli Stati Uniti su Hiroshima e Nagasaki. Come a dire: sentite da che pulpito viene la predica. Argomento che ritroviamo nelle discussioni che serpeggiano nel web come le accuse che Putin ha rivolto agli angloamericani a proposito del sabotaggio sottomarino del NordStream, aprendo in questo modo la possibilità per la Russia di ricorrere agli stessi metodi (già si paventa il sabotaggio dei cavi Internet). I putinologi chiamano questa retorica “l’effetto specchio”. Rilanciare e controaccusare specularmente. Il problema è che il pokerista Putin ha un difetto: gli manca quella qualità che fanno grande un giocatore, ossia la capacità di indovinare le carte degli avversari. Gli va bene fin quando lo lasciano giocare e abbandonano il tavolo, metafora di quel che è sempre successo nei confronti della sfrontata audacia putiniana, quando il presidente russo ha attaccato la Georgia, ha annesso la Crimea, ha operato massicciamente in Siria, ha inviato mercenari in Congo, Libia e Ciad.

L’Occidente protestava timidamente, minacciava sanzioni, qualcuna l’applicava, salvo continuare a comprare da Mosca gas e petrolio e tante altre risorse minerarie di cui la Russia è straordinariamente ricca. Oggi, il tavolo di poker si è fatto più professionale. Qualcuno è restato. Ha rilanciato. L’uso e abuso delle minacce può ritorcersi, come ha sottolineato John Sullivan, consigliere della sicurezza nazionale di Biden: “Abbiamo comunicato al Cremlino, in privato e ad altissimo livello, che ogni utilizzo di un’arma nucleare provocherebbe delle conseguenze catastrofiche per la Russia, poiché gli Stati Uniti e i nostri alleati risponderebbero in modo decisivo. Siamo stati chiari e precisi su cosa ciò implicherebbe”.

Siamo di nuovo al tempo della crisi di Cuba. L’unico dettaglio è che Biden non è Kennedy, come Putin non è nemmeno Krusciov. Ci sono nuovi attori sul palcoscenico del mondo: per ora assistono al tragico spettacolo. Cina ed India, tuttavia, cominciano a premere sul loro amico russo (sempre meno affidabile) perché si giunga ad una soluzione del conflitto. I cinesi diffidano dell’Orso Polare, come chiamano i russi di cui non approvano l’imperialismo euroasiatico, e non credono alla sincerità di Putin che ha di fatto accettato il vassallaggio perché costretto a svendere gas e petrolio.

Gli indiani sono più che perplessi del loro ingombrante storico partner: vorrebbero la fine del conflitto e recuperare la stabilità dei mercati, visione che li accomuna al pragmatismo cinese. Sarebbe la fine di Putin: e pure questo suscita timori, troppe incognite sul “dopo” frenano Pechino e Nuova Delhi. Solo l’Europa è sempre la stessa litigiosa Europa di quello spaventevole 1962. Unita e disunita, perché prevalgono sempre gli interessi e gli egoismi delle nazioni più forti. Sarà il grande brutto inverno del nostro scontento. Sperando che non sia l’ultimo.