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Il Cile dice no alla non-Costituzione che piaceva a tutti. Tranne ai cileni

La si potrebbe in tutta tranquillità chiamare – parafrasando per l’ennesima volta il titolo d’uno dei più famosi romanzi di Gabriel García Márquez – la cronaca d’una catastrofe annunciata. Anzi: annunciatissima. Da mesi, infatti, tutti i sondaggi d’opinione inequivocabilmente andavano segnalando, in vista del programmato referendum chiamato ad approvare o respingere la nuova Costituzione, maggioranze a favore del rechazo che, se non proprio “bulgare”, apparivano chiarissime e a prova di rimonta. Rechazo è stato, se non proprio in bulgare proporzioni, certamente al riparo da qualsivoglia edulcorata analisi d’una disfatta che, per come è arrivata, per i suoi tempi, i suoi modi e per i suoi più intrinsechi significati, è un vero e proprio calcio in faccia al fresco governo di Gabriel Boric, all’intera sinistra cilena e, in buona misura, anche all’intera sinistra latino-americana e “globale”.

Non c’è modo di indorare la pillola. Il “no” ha ricevuto, domenica scorsa, il 62 per cento dei voti contro il 38 per cento dei “sì”. E se questa già di per sé appare, in termini assoluti, una catastrofica sconfitta, a incrementarne l’apocalittica portata si sovrappone la mostruosa “relatività” dei numeri di cui sopra. Più in concreto: si sovrappone – inevitabile e dolorosissimo – il confronto con le cifre che, solo poco più d’un anno fa avevano sancito i vincitori e i vinti di un altro referendum. Quello che, per l’appunto, era stato chiamato a dire “sì” o “no” al ripudio della Costituzione vigente – approvata nel 1980 durante il sanguinoso regno di Augusto Pinochet – e alla elezione d’una assemblea costituente col compito di elaborarne una nuova di zecca, in sintonia con un paese che, come dimostrato dalle proteste popolari che l’avevano scosso lungo tutto il 2019, aveva fame di democrazia, di libertà e di nuovi diritti. In quell’occasione gli “apruebo” avevano sfiorato, trionfalmente, l’80 per cento dei suffragi.

Che cosa è accaduto? In che modo e perché quell’80 per cento è tanto repentinamente e rovinosamente precipitato al 38? Come e per quale motivo la spinta al cambiamento – la stessa che, solo qualche mese fa, aveva portato Gabriel Boric alla moneta con il 56 per cento dei voti– si è tanto clamorosamente trasmutata nel suo contrario? E questo, altro apparentemente inspiegabile paradosso, mentre da ogni parte del mondo si levavano, non solo grazie ai corifei progressisti, lodi ed elogi per i contenuti innovatori che – in termini di inclusività, ambientalismo, eguaglianze di genere, riconoscimento delle nazionalità indigene e di nuovi inalienabili diritti sociali alla salute ed all’educazione – sembravano, come in una finestra aperta sul futuro, esemplarmente caratterizzarla.

Qualcuno pochi giorni prima del voto e di quello che si annunciava, ormai, come un inevitabile trionfo dei “no” l’aveva definita: Una Costituzione che piace a tutti, tranne ai cileni”. E un fatto è lapalissianamente certo: i cileni davvero desideravano – e chiaramente l’avevano detto il 15 maggio dello scorso anno – una nuova Costituzione. La volevano per ragioni morali e per ragioni politiche. La volevano (questa la ragione morale) perché – seppure emendata nel 1989 e nel 2005 dai suoi più ovvi contenuti autoritari, e ormai diventata, di fatto, una classica carta magna liberale – quella Costituzione portava comunque il marchio d’infamia della dittatura. A concepirla era stato Jaime Guzmán (poi assassinato nel ‘91, poco dopo il ritorno della democrazia, dal Frente Patriótico Manuel Rodríguez) riconosciuta eminenza grigia giuridica di Pinochet.

“Approvata” con un referendum-farsa con quasi il 70 per cento dei voti – quella Costituzione aveva un chiarissimo obiettivo: garantire la continuità del regime all’interno di una democrazia bipartitica di facciata (tipo quella che, in Paraguay, per molti decenni fece da schermo ad Alfredo Stroessner). La volevano i cileni una nuova Costituzione (e questa è la ragione politica, economica e sociale) perché sentivano il bisogno, in un paese diventato sotto Pinochet la “carne da cannone” del neoliberismo estremo dei “Chicago -boys”, di nuovi principi e diritti che combattessero vecchie e nuove diseguaglianze, vecchie e nuove ingiustizie.

E proprio questo è il punto. Nella nuova Costituzione rechazada a grande maggioranza dal popolo ci sono tutti – e tutti in sovrabbondanza – quei principi e quei diritti che il popolo agognava. Non ne manca nessuno. E questo spiega gli elogi progressisti piovuti da ogni angolo del pianeta. Il problema è che non d’una Costituzione si tratta. Perché della Costituzione quel documento non ha, in effetti, due delle più indispensabili caratteristiche: la chiarezza e l’essenzialità, la capacità d’offrire, in sintesi, una riconoscibile e davvero maggioritaria idea di nazione.

Il documento che l’assemblea costituente – eletta con criteri paritari, 50% uomini e 50% donne e molto, forse troppo, “spostata a sinistra” – ha infine consegnato alla storia (e alla propria catastrofica sconfitta) ricorda piuttosto una di quelle piattaforme programmatiche, mastodontiche e inutili elenchi di promesse, che le coalizioni partitiche sono solite elaborare in vista delle elezioni per dare ai votanti (che di norma quelle piattaforme neppure leggono, perché illeggibili) un artefatto senso di compattezza; contenitori nei quali deve entrare tutto, dai massimi sistemi dell’ideologia, alle politiche per il verde pubblico.

La nuova (e già ignominiosamente archiviata) non-Costituzione cilena non è, a conti fatti, che una sommatoria di eccellenti intenzioni e di splendide idee di libertà e di eguaglianza, passate però al frullatore da una sinistra immatura e folcloristica, innamorata di se stessa e del proprio lessico; un fiume di parole lungo quasi 200 pagine per quasi 400 articoli – nel quale, in forma liquida, scorre di tutto e di più. O meglio: dove si può trovare tutto tranne la capacità di dare un senso a concetti, o meglio, a suggestioni ribadite fino alla noia – vedi il caso della natura “plurinazionale” dello Stato – ma mai davvero spiegate. Un esempio, giusto per dare un’idea, tra le centinaia che si potrebbero estrarre dal frappè presentato al popolo. Dall’articolo 6, paragrafo 4: “Le istituzioni, i poteri e gli organi di Stato… dovranno incorporare trasversalmente la focalizzazione di genere nel suo disegno istituzionale, di politica fiscale, di bilancio e nell’esercizio delle sue funzioni…”

Un pasticcio. E un pasticcio sul quale la destra ha felicemente, senza fatica e con prevedibile successo, costruito la sua campagna di disinformazione, dilatando paure e rancori. I dirigenti di sinistra più avveduti – a partire dallo stesso Boric – hanno cercato di correre ai ripari annunciando una continuazione (e una rettificazione) del processo costituzionale. Ma non hanno fatto, in sostanza, che peggiorare le cose. Un pasticcio la nuova Costituzione era e un pasticcio è rimasto, con le “toppe” dell’ultima ora a ulteriormente evidenziarne i difetti.

Dato per certo da settimane dai sondaggi il cazzotto è infine arrivato. E colpita al mento, la sinistra – incapace di alzare la guardia perché troppo impegnata a guardarsi allo specchio – è finita miseramente al tappeto. Non sarà facile, adesso, rialzarsi prima che l’arbitro – ancora una volta il popolo cileno – conti fino a dieci.