Cultura

Svjatoslav Richter, 25 anni fa moriva lo schivo titano del pianoforte

Il primo agosto 1997 a Mosca moriva Svjatoslav Teofilovich Richter, pianista tra i più grandi e insigni della storia di quello strumento – non il più grande perché il piano ha una lunga tradizione alle spalle e un grande futuro davanti a sé. In questi 25 anni le somme che si sono potute tirare sulla sua titanica figura sono state molte. Il suo esempio appartato non ha prodotto epigoni o allievi, non ha sfornato imitatori (come sfortunatamente ci sono stati del grande Vladimir Horowitz), il solitario viaggiatore che è stato per 81 anni continua ad essere tale anche dopo la morte.

Forse è stata proprio questa solitudine accanitamente coltivata a far sì che potesse dedicarsi con così tanta intelligenza e così tanta sensibilità all’esplorazione di uno dei più vasti repertori che pianista abbia mai avuto: 80 programmi solistici diversi. Richter spaziava da Bach, di cui ha eseguito in maniera impareggiabile Il clavicembalo ben temperato, un folto gruppo di altri brani tra cui diverse suite inglesi e francesi e qualche brano di rara esecuzione come le Sonate; poi Handel di cui ha interpretato diverse suites e via via poi, risalendo il grande fiume della tradizione tastieristica passava per il classicismo di Mozart e soprattutto di Haydn fino a Beethoven, con un’ampia scelta delle sonate e poi i romantici, Schumann di cui si colloca tra i maggiori interpreti in senso assoluto e Chopin fino a Brahms.

Poi i contemporanei, specie i russi Prokofiev’ e Shostakovich, di cui fu anche amico intimo e di cui fu interprete d’elezione. Ma l’appetito musicale di Richter non si limitava al repertorio solistico, fu anche eccellente partner di cantanti, dalla moglie Nina Dorliak al grande Dietrich Fischer-Dieskau, con cui ha eseguito e inciso un folto gruppo di lieder di Schubert, Brahms (Die Schoene Magelone) e Hugo Wolf, per arrivare a una Winterreise di Schubert con Peter Schreier, che rimane un incunabolo preziosissimo nella discografia del compositore viennese. E poi la musica da camera che ha sempre eseguito con estremo impegno e assiduità, dalla storica collaborazione con David Oistrakh a quelle con giovani strumentisti che aiutò a collocarsi nella scena internazionale: Oleg Kagan, Yuri Bashmet, Natalia Gutman. Ma anche giovani pianisti con cui ha duettato di frequente: dal giovane Andrej Gavrilov ad Andreas Lucewicz. Indimenticabili anche i dischi in duo pianistico con il suo amico Benjamin Britten.

Del resto oltre all’approccio verso il repertorio, Richter unico lo è stato sin dall’inizio: quasi autodidatta (“i miei maestri sono stati: mio padre, Neuhaus e Wagner”) entrò in conservatorio a Mosca che era già ampiamente formato. Per ammissione del suo stesso maestro che lo volle suo allievo nonostante la stranezza del suo percorso formativo, il grande Heinrich Neuhaus, il giovane Slava aveva solo bisogno di una “limata”. Richter riconobbe in una tarda intervista che il maestro fu per lui come un padre e che cambiò due cose nel suo modo di suonare: la posizione alla tastiera, adottando quella molto alta di Neuhaus e l’attenzione per il suono che andava “aperto”.

Unico poi Richter lo fu per l’approccio alla carriera da pianista. Totalmente indifferente a qualunque cosa che non fosse la messa a punto della musica, fu trascinato nel mondo dello star system dallo stato sovietico con l’invio del giovane puledro (ma non più proprio giovane, visto che aveva superato abbondantemente la quarantina) da esportazione in America. Nel 1960, con le sue esibizioni newyorkesi, inizia la carriera occidentale del fenomeno che viene giustamente osannato con ogni genere di superlativo. Scarsamente interessato al successo, Richter in America non si trovò bene e praticamente non vi tornò più dopo il debutto trionfale, ma iniziò a vagabondare per l’Europa e non si fermò, non esiste cittadina piccola con un teatro minuscolo che non abbia avuto una data del pianista.

L’Europa musicale si trovò a dover dare una collocazione a un eretico con un talento straripante, una personalità imponente e una ferrea volontà a resistere ad ogni invasione mediatica. Dopo l’iniziale collaborazione con Emi, DG, Decca e Philips la sua allergia alla sala di registrazione lo portò a rifiutare ogni possibile intesa con un modo di produzione che sentiva profondamente estraneo: i suoi dischi numerosissimi – è il pianista più registrato della storia – sono però praticamente tutti dal vivo. Abbiamo centinaia di incisioni dagli anni Quaranta del secolo scorso fino a due anni dalla morte, quando la malattia gli rese impossibile esibirsi, con il mancare vieppiù delle forze.

Dopo un radicale intervento cardiaco alla fine degli anni Ottanta, infatti, Richter era tornato ad esibirsi ma affinando un rituale di esibizione quasi ascetico, affascinante ma anche molto frustrante per il pubblico: buio in sala, lampada a illuminare la sola musica sul leggio, il pianista come rabdomante e lettore sacrale, repertorio sempre più volto ai classici, dizione sempre più secca, addio al supremo colorismo degli anni della maturità, tempi sempre più moderati e meditativi, gelida sfinge. L’enigmatico ultimo Richter baciato dalla morte ancora ci interroga.