Diritti

Reddito di cittadinanza a stranieri, il governo promette di intervenire ma non lo fa. Saraceno: “Il ministero disse di preferire una condanna Ue al confronto politico”

Per ottenere il Reddito di Cittadinanza bisogna essere residenti in Italia da 10 anni. Una regola che esclude buona parte dei poveri assoluti e che sta causando migliaia di processi perché stride con le norme Ue. Tanto che la Commissione europea ne chiede conto e l'Italia risponde annunciandone la revisione. Salvo poi, lo stesso giorno, bocciare la proposta di modifica del Comitato scientifico per il RdC, istituito dallo stesso governo e guidato dalla sociologa Chiara Saraceno. Che oggi rivela: "I funzionari del ministero del Lavoro ci dissero che si preferisce la condanna della Corte europea piuttosto che affrontare il dibattito politico"

Altro che abolirla, in Italia ci sono povertà che la politica ha rinunciato addirittura a combattere. Anche se significa violare la legge, rischiare una procedura di infrazione in Europa o finire nelle aule dei tribunali, indifferentemente che si tratti di intasare quelli italiani o di impegnare addirittura la Corte di giustizia europea. Tutto pur di non disturbare gli equilibri del governo di unità nazionale di Mario Draghi. Anche a costo di dire a Bruxelles che ce ne saremmo occupati mentre a Palazzo Chigi il tema viene censurato perché “troppo politicamente sensibile“, come racconta oggi la sociologa Chiara Saraceno che il governo chiamò a guidare il Comitato scientifico sul Reddito di Cittadinanza (RdC). Al centro della storia sono infatti la misura introdotta per contrastare la povertà e la maggioranza dei poveri che non lo riceve. E in particolare il più controverso tra i requisiti per ottenerlo, quello che esclude chi non ha dieci anni di residenza in Italia. Perché non ha pari negli altri Stati europei e perché stride con le norme dell’Unione alle quali oggi si appella anche chi aveva ottenuto il sussidio in assenza del requisito, impugnando le revoche dell’Inps che chiede indietro i soldi, e rivolgendosi ai tribunali per dimostrare che ne ha comunque diritto. “Cittadine e cittadini stranieri in regola col requisito patrimoniale e quindi bisognosi, ma spesso male informati dai centri di assistenza fiscale o dai patronati che hanno compilato le loro domande”, spiega l’avvocato Alberto Guariso, al fianco di molti ricorrenti. Quanti sono? Nel 2021 l’Inps ha revocato il beneficio a 110mila nuclei, e in un report scrive che “la motivazione più frequente è l’accertamento della mancanza del requisito di residenza”. Secondo alcune associazioni che hanno denunciato la questione alla Commissione europea, “si tratta di numeri che potrebbero tradursi in altrettanti processi, intentati da famiglie in comprovato stato di necessità”.

Nel 2019 furono Movimento 5 stelle e Lega, alleati nel primo governo Conte, a istituire il RdC, compreso il requisito dei dieci anni di residenza subito criticato da realtà come la Caritas per la sua “iniquità”. In un’intervista a ilfattoquotidiano.it, il direttore del dipartimento Lavoro e Affari sociali dell’Ocse, Stefano Scarpetta, ha ricordato che il 56% dei poveri assoluti non riceve il RdC, e sugli anni di residenza richiesti ha aggiunto: “In quasi tutti gli altri Paesi ne bastano cinque“. Lo stesso presidente dell’Inps, Pasquale Tridico, un anno fa lo definì “eccessivo”. Nonostante le critiche, il requisito sopravvisse anche al secondo governo Conte, che pure limitò a due anni la residenza utile a ottenere il Reddito di emergenza, istituito per sostenere le famiglie in difficoltà a causa della pandemia. Un’occasione persa di sistemare quella che molti considerano una grave violazione di norme Ue. Già nel 2020, infatti, le associazioni Naga, Avvocati per niente, L’altro diritto e Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) denunciarono la questione alla Commissione europea che poi ne ha chiesto conto all’Italia. Il confronto è tuttora nella fase preliminare a un’eventuale procedura di infrazione, ma alcuni legali hanno avuto conferma che il 9 novembre 2021 il nostro governo ha risposto prospettando una revisione legislativa. L’occasione era prossima e di lì a poco alcune modifiche al RdC sarebbero entrate in legge di Bilancio. Ma non quella sulla residenza. Abbiamo cambiato idea?

In realtà l’intenzione non c’è mai stata, tantomeno nel giorno della risposta alla Commissione europea. A confermarlo sono oggi le parole della sociologa Chiara Saraceno, che il governo volle a capo del Comitato scientifico per la valutazione del RdC, una commissione ministeriale istituita per trovare soluzioni migliorative della misura. Ironia della sorte, la relazione del Comitato arriva lo stesso 9 novembre. Le proposte del Comitato non sono un fulmine a ciel sereno perché tra i membri c’erano anche funzionari del ministero del Lavoro. E più importante, prima di quella data il governo aveva già approvato una bozza di modifiche. È il caso di ricordarlo perché nessuna delle dieci proposte del Comitato verrà approvata. Quanto alla nostra storia, “mentre le altre proposte, anche se poi bocciate, sono arrivate all’attenzione dei ministri, su quella di ridurre il requisito di residenza dissero che era “troppo politicamente sensibile“, racconta la sociologa a ilfattoquotidiano.it. Insomma, mentre a Bruxelles promettiamo di occuparcene, a Roma non se ne deve nemmeno parlare. “I funzionari del ministero del Lavoro ci dissero che era stato deciso preliminarmente di non portare la questione in Consiglio dei ministri”. E li cita: “Meglio essere messi in mora dalla Corte europea che affrontare la cosa nel dibattito politico”. Eppure, suggeriva il Comitato nella sua relazione, se non si voleva scendere ai due anni stabiliti per il Reddito di emergenza, si poteva almeno arrivare a cinque. Il costo? Un incremento della spesa complessiva di appena il del 3,4%, che avrebbe permesso di includere fino a 68.000 famiglie aggiuntive, dice la relazione del Comitato.

Trecento milioni su quasi nove miliardi totali, per mantenere la parola con l’Europa e scongiurare possibili, onerose sanzioni. Secondo la denuncia presentata a Bruxelles, si violano norme Ue che vietano ogni discriminazione basata sulla nazionalità dei lavoratori e tutelano quelli degli altri Stati membri (art. 45 TFUE), “che – dice una sentenza della Corte di giustizia – con le imposte e i contributi che versano contribuiscono anche al finanziamento delle politiche sociali dello Stato membro di accoglienza”. Principio sancito dal regolamento Ue 492/2011 sulla libera circolazione dei lavoratori comunitari e non solo. Quanto ai cittadini di Stati terzi, i dieci anni contrastano con i diritti di chi ha già un permesso di soggiorno permanente in quanto residente da almeno cinque anni. La direttiva europea 2003/109 riconosce ai titolari lo stesso trattamento degli italiani per prestazioni sociali e assistenza e pretendere che aspettino altri anni significa violarla. E così per i rifugiati, compresi quelli che in questi giorni il governo arruola per avviarli all’edilizia, la direttiva 2011/95 impone di assicurare un’assistenza sociale adeguata e alla pari con gli italiani. Ma i tempi di una procedura di infrazione sono lunghi, e quel tre percento avrebbe evitato a tante famiglie povere i ricorsi che ora vedono partire le udienze, un costo per la collettività e un rischio per l’Italia di finire davanti alla Corte europea.

Ma soprattutto avrebbe permesso di contrastare altra povertà. Scrive l’Istat a marzo: “Dopo il peggioramento dello scorso anno, segnali di stabilità si osservano anche tra le famiglie italiane, mentre si aggrava la condizione di quelle composte da soli stranieri”. E coinvolge migliaia di minori. “Con il rischio – scriveva il Comitato Saraceno nella relazione – che la loro situazione peggiori in modo irreversibile laddove un aiuto più tempestivo potrebbe prevenire l’avvio di traiettorie verso l’esclusione sociale, quando non la devianza”. Consigli lasciati cadere, come sappiamo. Ma stavolta le barricate anti-stranieri della Laga non c’entrano. Anzi, a sentire i parlamentari leghisti lo scorso autunno nessuno li ha disturbati. “Non abbiamo avuto sentore che altre forze di maggioranza intendessero dare battaglia o presentare emendamenti, ce ne saremmo accorti”, riferiscono chiedendo l’anonimato in ossequio all’armonia governativa. “Anche il M5s era più interessato a difendere il totem dei 780 euro che al merito delle nostre proposte”, aggiunge la Saraceno, che archivia l’esperienza come “deludente”, segnata da “assoluta ignoranza sui consigli di una commissione istituita dallo stesso governo”. E il Partito democratico? Con Andrea Orlando è a capo del ministero del Lavoro che il 18 gennaio ha ricevuto un’interrogazione parlamentare in merito. A firmarla alcuni deputati di sinistra, tra gruppo Misto e Liberi e Uguali, che chiedono “quali siano gli intendimenti del Governo in merito alla procedura applicata dalla Commissione europea nei confronti dell’Italia”. “Ad oggi nessuna risposta, dovrò fare un sollecito”, riferisce la prima firmataria, la deputata Doriana Sarli.

Nell’assenza della politica, gli esclusi e revocati dal RdC sperano nella giustizia dei tribunali. “Avviamo cause civili per dimostrare che le persone indigenti hanno diritto al RdC a prescindere dai 10 anni di residenza, ed evitare così le cause penali”, spiega l’avvocato Guariso. Perché il RdC prevede anche una pena fino a sei anni per chi ha ottenuto il sussidio dichiarando il falso. “In maggioranza si tratta di cittadini comunitari, ma anche tanti rifugiati usciti dal sistema di accoglienza e lungo soggiornanti, che da caf e patronati si son sentiti dire che a loro il requisito non si applica”, racconta. “Ci sono persone a cui è stata compilata la richiesta a pochi giorni dalla maturazione dei 10 anni di residenza, e in altri casi si tratta di pochi mesi. Eppure lo Stato non chiede la restituzione di quel periodo, ma di tutto quello che è stato percepito”. Di più, il legale riferisce di famiglie a cui il beneficio accordato è stato anche rinnovato una seconda volta, “e nelle more dei disservizi dell’Anagrafe nazionale si arriva a una revoca dell’Inps che chiede indietro più di due anni di sussidio”. Alle cause in corso sono allegate le richieste al giudice di rivolgersi alla Corte di giustizia europea. “Il giudice può anche applicare direttamente le norme Ue, ma inciderebbe solo sul singolo processo. Se si esprime la Corte europea, invece, il risultato è a favore di tutti”, aggiunge Guariso. Il primo obiettivo, una volta ottenuto un rinvio, è di ottenere dall’Inps la sospensione delle revoche in attesa del giudizio della Corte europea. “Intanto – conclude – si rischiano decine di migliaia di processi l’anno e in tempi brevi il problema penale non si risolve senza un’amnistia e quello civile non si risolve senza una sanatoria“. Ma per quello ci vuole la politica.