Economia & Lobby

Spese militari: per competere serve investire in ricerca, non in un riarmo fine a se stesso

di Giuseppe Castro

L’Italia, assieme ad altre nazioni, si è da poco ripromessa di aumentare la spesa militare di ulteriori 13-14 miliardi, portandola al 2% del Pil. Si tratta in realtà di un impegno preso otto anni fa, nel corso dei quali, vuoi perché non vi erano nemici all’orizzonte, vuoi perché il denaro era più utile altrove, sostanzialmente non se ne è fatto nulla. La guerra in Ucraina ha risvegliato improvvisamente la Nato dal suo torpore, facendo tornare d’attualità il riarmo e il vecchio accordo sul riarmo.

Se, solo due-tre mesi fa, la lotta alle pandemie, la transizione energetica e la mitigazione dei cambiamenti climatici sembravano essere la nostra priorità, oggi chi afferma che sarebbe meglio investire i 13-14 miliardi in sanità, ricerca e servizi pubblici piuttosto che in armi è rappresentato come una sorta di nemico della patria. I propugnatori del riarmo affermano che maggiori investimenti sono necessari per potenziare la nostra difesa e dissuadere ipotetici nemici futuri. E poi avevamo preso un impegno e l’Italia gli impegni li rispetta. O no?!

Non proprio. Nel 2010 l’Italia usciva dall’ennesima crisi pronta a tuffarsi in quella seguente. Il consiglio europeo, su proposta della commissione, adottava la strategia “Europa 2020”. L’idea della strategia era stabilire alcuni obiettivi, da raggiungere nel 2020, per uscire dalla recessione iniziata nel 2008. Tra questi vi era l’obiettivo di aumentare gli investimenti in Ricerca e Sviluppo per l’intera unione al 3% del Pil. L’Italia si era posta come obiettivo nazionale un misero 1.53% (per Francia e Germania era il 3%) dall’1.26% del 2010. Secondo i dati Istat più aggiornati, gli investimenti in ricerca non hanno mai superato l’1.46% del Pil, rimanendo quindi al di sotto del target prefissato, senza che nessuno si sia mai stracciato le vesti. Evidentemente in Italia ci sono obiettivi di serie A e obiettivi di serie B.

È bene sottolineare che gli investimenti nella ricerca scientifica sono essenziali non solo per rimanere competitivi in un mondo complesso come il nostro, e quindi per garantire ricchezza, sviluppo e ricadute occupazionali, ma anche e soprattutto per rispondere alle terrificanti sfide che il XXI secolo ci pone di fronte. Le più autorevoli agenzie climatiche prevedono un aumento tra i 2 e i 4°C della temperatura media globale e un aumento del livello dei mari tra 0.30 e 2 metri con conseguenze catastrofiche sulla vivibilità di aree abitate da centinaia di milioni di persone. La pessima esperienza della pandemia da Covid-19 e il timore di nuove e più pericolose pandemie hanno reso auspicabile un miglioramento dell’efficienza del sistema sanitario, anche attraverso un aumento della spesa pubblica destinata alla sanità, attualmente al di sotto della media Europea.

Maggiori investimenti in ricerca avrebbero anche ricadute profonde sulla transizione energetica che, una volta avvenuta, ci renderà indipendenti dal fossile e dai ricatti dei paesi non democratici che ne sono produttori, come la Russia. Se l’Europa non fosse stata ricattabile probabilmente la crisi Ucraina non sarebbe avvenuta, o comunque non con queste modalità. L’investimento in ricerca è quindi anche un investimento in pace e ci permetterebbe di ottenere la stessa identica deterrenza che oggi si vuole ottenere col riarmo.

È compito della nostra classe dirigente decidere se le nostre tasse vadano utilizzate per creare un mondo migliore per i nostri figli e nipoti, investendo in ricerca e sviluppo, o dirottate verso un riarmo scriteriato e fine a se stesso. Le risorse infatti sono sempre quelle, non è possibile investire sia in una cosa che nell’altra. Bisognerà scegliere secondo l’idea di futuro che si ha per l’Italia.

Investire in istruzione, ricerca e sanità è la chiave per portarci tra le democrazie più floride e avanzate del mondo. Se la nostra classe dirigente non si deciderà a guardare oltre il proprio naso, rischieremo di rimanere ancorati a logiche che altri paesi hanno già abbandonato nel XX secolo.

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