Musica

Bruce Springsteen vende il suo catalogo a Sony: a me sa di ipoteca del passato (che non si compra). Il mio

Da fan attempato quale sono di Bruce Springsteen, ciò che ho mal digerito dopo la notizia della cessione della sua opera omnia alla Sony è stata una sgradevole sensazione di ipoteca del passato. Il mio passato. Non mi accodo di certo a quelle voci di stampa che stanno dando un’eco esclusivamente monetaria a questo fatto: Bruce era già un uomo straricco, assai prima di incassare questa cifra astronomica, e mi fanno ridere quelli che se la menano con argomenti quali ‘adesso il cantante del New Jersey si è garantito una serene vecchiaia’.

Bruce è solo l’ultimo tra i grandi della musica contemporanea ad aver ceduto la sua produzione ad una multinazionale, la quale opera ben consapevole di tesaurizzare un tempo musicale irrepetibile, quello del rock d’autore, che tra decenni ancora farà ballare e cantare molte generazioni. Il punk, che non doveva morire, è scomparso. Il rock no, è sopravvissuto, forte anche tra vent’anni della frase di Lou reed ‘Niente batte due chitarre, batteria e basso’. La multinazionale lo sa bene: il rock, come una araba fenice, torna periodicamente e prepotentemente alla ribalta, sparigliando canzoni e canzonette che non sopravvivono mai alla loro alba, riportando in auge quella musica della quale, da Elvis in poi, l’essere umano sente un arcaico bisogno. Cosa è il successo dei Maneskin se non una atavica ed inesauribile voglia di basso, batteria e chitarra, dopo tanta saturazione di musica incapace di andare oltre la generazione che l’ha pensata? E’ questa la cospicua eredità che Sony si è messa in cassaforte. Saggiamente.

Scrive malamente il giornalista di Repubblica quando afferma che in questo modo Bruce ‘rinuncia al controllo della sua musica’ . O meglio, scrive da contabile che non sa, non conosce, non ricorda l’adagio “Il mondo si divide in due categorie, quelli che amano Springsteen e quelli che non lo hanno mai visto in concerto”, frase che segna quel fossato che divide un brano inciso in studio dal vissuto condiviso che le canzoni del Boss hanno saputo suscitare portandole a mutare nel tempo. Sì, perché mai come nel caso di Bruce il concetto di ‘proprietà’ diventa assai relativo visto che parliamo di brani su vinile, i quali hanno poi preso una vita loro, diversa, irriconoscibile, generata nelle esibizioni dal vivo ove il pubblico costituisce la nota aggiuntiva. Quel tempo è un passato condiviso sul quale nessuna multinazionale potrà mai accampare diritti, se non monetari.

Per noi, abbagliati da Bruce da un tempo irrecuperabilmente lontano, resta la volontà di marcare quei concerti e quella musica come nostri, segnata per sempre dall’essere stata un’esibizione ‘live’, capace di trascendere e surclassare qualsiasi esecuzione in sala di registrazione. Dai primi passaparola per andare a San Siro nel 1985 con mezzi di fortuna, passando per lunghe e interminabili code notturne per accaparrarsi un biglietto, sino all’attesa di ore sotto il sole davanti ai quei cancelli, per arrivare innanzi a quella transenna che divideva le note del disco da quelle che lì, con noi e per noi, sarebbero poi state suonate dando a quei pezzi una forma di vita autonoma. Non è un caso che i concerti più ascoltati di Bruce sono contenuti nei bootleg, incisioni semipirata che hanno scandito la sua e la nostra vita, pieni delle nostre voci, dei cori, delle sfumature che il pubblico ha saputo di volta in volta dare.

E’ proprio in nome di questa vita condivisa che tanti di noi avevano avvertito come un fine corsa l’uscita del disco Western Stars, opera che racchiude un senso di congedo, una sorta di saluto a quel mondo energico e muscolare, a quel rock che era pura passione capace di rendere l’aria profumata ed elettrica, segnando il passaggio ad una fase più riflessiva ed intimista di Springsteen. Quel disco, e i più lo hanno scorto senza volerselo confessare, conteneva i germi dell’addio. Addio alle notti insonni, alle file, ai viaggi in giro per il mondo col biglietto in tasca, addio all’ingresso trionfale con la Fender levata verso il cielo, al muoversi della quale 50.000 persone si alzavano in piedi. Sapevamo tutti della cessione in blocco della sua monumentale produzione, ma nulla avrebbe mai messo le mani sul sudore, sulla fatica, sulle maniche di camicia raggomitolate per salire sul pianoforte per dedicarci un ultima e indimenticabile For You come avvenne per il reunion tour a Bologna. Per molti di noi, quelle note avevano l’indigesto sapore della quiete purtroppo raggiunta. Sony o non Sony.

Poi, di colpo, le emittenti rilasciano l’anteprima di Letter to You, il ruggito del vecchio leone. Nel video di presentazione dell’album, che doveva inaugurare il tour prima del tempo pandemico, un parlare fitto tra Bruce e i membri della band preconizzava il ritorno in Italia, negli stadi. Tra la gente. Cantavamo in sala, in camera, in cucina Ghosts, brano meraviglioso, colpo di reni di chi sa che la sua musica va ben oltre gli studios, pensato per essere suonato ancora una volta, forse l’ultima, davanti al suo pubblico.

Tutti eravamo pronti per ripartire, per mollare ancora una volta armi e bagagli e correre, di giorno o di notte, davanti a quella scomoda transenna ad attendere che la Fender si levasse di nuovo al cielo nel quale sono ancora incise le voci di tuti noi, oggi invecchiati, ingrassati, fatti bianchi e colmi di impegni. Ecco, tutte le promesse contenute in questo ultimo disco sono quella musica che eccede i diritti contrattuali, che è fatta per rimettersi in gioco e per riportarci quando sarà possibile ancora una volta là fuori, sul prato, ad attendere che il vecchio Dio del rock si mostri.