Mondo

Alexei Navalny ha vinto il premio Sakharov, ma ciò non cambierà la sua posizione. Anzi

Sa bene Alexei Navalny che il prestigioso premio Sakharov conferitogli mercoledì 20 ottobre dal Parlamento europeo non smuoverà di un palmo la sua (vessata) posizione di detenuto politico, di oppositore in catene. Anzi. Il Cremlino valuterà questo gesto come un atto ostile. Né diminuirà l’accanimento giudiziario di cui è vittima da anni: contro di lui infatti si accumulano processi e denunce pretestuose. L’ultima è di fine settembre: gli hanno attribuito la creazione di un gruppo estremista. Con l’ironìa che lo ha sempre contraddistinto, Navalny ha tranquillizzato i suoi simpatizzanti: “Tranquilli, non temete. Sarò liberato a primavera. Del 2051”.

Di recente ha perso il suo statuto di detenuto “suscettibile d’evasione”. Il che gli ha permesso di non essere più tormentato dai secondini che lo svegliavano tutte le ore della notte. Ma è purtroppo assai probabile che questo regime punitivo venga ripristinato, per ripicca. Non dimentichiamoci che ha dovuto sostenere uno sciopero della fame durato 24 giorni perché gli negavano l’accesso alle cure. In quell’occasione, invitò i suoi sostenitori a “rifiutare la paura”. Parola che ricorre nella motivazione del premio, assegnato “ad un uomo che della coerenza ha fatto una ragione di vita”. La sua lotta, si legge, “senza sosta contro la corruzione del regime di Vladimir Putin è condotta con immenso coraggio. Chiediamo a Putin di non avere paura. Sfidiamo Putin ad avere anche lui coraggio. Può dimostrarlo questo coraggio, in un modo solo: liberando Navalny. È la richiesta del Parlamento europeo”.

Due settimane dopo l’attribuzione del Nobel per la Pace a Dmitri Muratov, capo della redazione di Novaja Gazeta, il giornale in cui lavorava la povera Anna Politkovskaja uccisa il 7 ottobre del 2006 nell’androne della sua casa di Mosca, il premio a Navalny è un altro pesante segnale dell’Occidente contro la deriva sempre più autoritaria e illiberale del regime di Putin e della “verticale di potere” che governa la Russia (attualmente in piena emergenza Covid, solo il 32 per cento della popolazione è stato vaccinato, il 16 ottobre si è avuto il picco record di vittime: 1002) e che si ritrova nel gelo di una nuova Guerra Fredda con gli Stati Uniti.

Venerdì scorso (15 ottobre), nel Mar del Giappone, due navi da guerra si sono sfiorate. Il cacciatorpediniere Usa “Navy Chafee” e la nave missilistica russa “Admiral Tribus” si sono trovate ad una distanza di circa sessanta metri, in una situazione piuttosto pericolosa perché la nave russa era impegnata nella (provocatoria) manovra congiunta tra Mosca e Pechino “Joint Sea 2021”, il cui scopo è quello di verificare e rafforzare la capacità di affrontare “le minacce alla sicurezza marittima”. Chiaro che sullo sfondo c’è il problema Taiwan, che i cinesi vedono come una sorta di portaerei naturale a soli 140 chilometri dalla costa della Repubblica. Ed è chiaro che Mosca e Pechino intendano stringere il loro legame militare strategico.

Dunque, non vi è alcun dubbio che la questione Navalny rientri in un puzzle politico assai complesso, poiché Putin non si può permettere un fronte interno sballottato dalle critiche, dalle proteste, dalle contestazioni che serpeggiano un po’ dappertutto, dal disagio sociale e dalla povertà che aggrediscono sempre più vaste porzioni della popolazione. In questo quadro, la “questione Navalny” non è secondaria. Il Cremlino non perdona all’antagonista di Putin la sua incrollabile resilienza, la volontà cioè di non lasciarsi dimenticare. Con questa sua ostinazione, questo impersonare la figura del Grande oppositore di Putin, il 45enne Alexei dal profondo della sua cella cerca di incoraggiare un’opposizione tramortita dalla capillare e implacabile repressione del Cremlino.

Come ha scritto David Sassoli, presidente del Parlamento europeo, “hanno prima tentato di censurarlo, poi di ucciderlo con il veleno; lui è tornato coraggiosamente in Russia, e lo hanno messo in galera”. Dove hanno cercato di annientarlo sia psicologicamente sia fisicamente. Non a caso, proprio il neo premio Nobel per la Pace Dmitri Muratov aveva subito dichiarato generosamente che se lo meritava molto di più Navalny. In un certo senso, il Parlamento europeo ha accolto il suo implicito appello.

Il Premio Sakharov è stato istituito nel 1988, è annuale ed è assegnato “a singoli, gruppi e organizzazioni che abbiano contribuito in modo eccezionale a proteggere la libertà di pensiero”, che si sono distinti per gli “sforzi compiuti a favore dei diritti dell’uomo”. In questo modo, “attraverso il Premio e la rete associata, l’Unione Europea sostiene i vincitori che sono così rafforzati e legittimati nella loro lotta per difendere le rispettive cause”. Il Premio promuove “in particolare la libertà di espressione, i diritti delle minoranze, il rispetto del diritto internazionale, lo sviluppo della democrazia e l’attuazione dello Stato di diritto”. Nel 2009 ottenne il premio la fondazione Memorial, molto attiva sul fronte dei diritti umani e della memoria dei crimini sovietici (ne ricordo l’immenso archivio, un luogo che il Cremlino vorrebbe non esistesse). Ebbene, contro Memorial da anni si sono intensificati attacchi, persecuzioni, accuse d’essere “agente del nemico”…

Comunque, il Premio Sakharov è un ambizioso, rispettabilissimo progetto, soprattutto di questi tempi difficili (pensiamo al confronto tra Ue e Polonia: in ballo c’è l’essenza dell’Unione, la Corte costituzionale polacca sfida Bruxelles, disconosce la supremazia della Corte di Giustizia europea, e il patto che Varsavia aveva accettato pur di far parte dell’Ue dalla quale ha ricevuto fondi più di quelli che dato).

Val la pena di ricordare che il fisico e grande dissidente Andrej Sakharov, alla cui figura si è ispirato a suo tempo il Parlamento europeo, venne arrestato ed esiliato poco tempo dopo aver ottenuto il premio Nobel per la Pace del 1975… forse l’opzione dell’esilio perpetuo è una delle carte che Putin si giocherà, come ha già fatto con l’ex oligarca Mikhail Khodorkovskij, prima arrestato perché temibile “competitor” del presidente russo, poi sbattuto nelle galere siberiane e dopo dieci anni cacciato dalla Russia.