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Delocalizzazioni, la battaglia mediatica tra il ministro Giorgetti e la vice Todde. Mentre incombono i licenziamenti Gkn e Whirlpool

Da quando il presidente di Confindustria ne ha bocciato i contenuti, il titolare del Mise fa filtrare sui giornali il suo scontento per le bozze del decreto e per non essere stato coinvolto. La vice pentastellata replica che il testo è stato condiviso già all'inizio di agosto. L'ultimo capitolo è l'atto di indirizzo di Giorgetti sulle aziende destinatarie di incentivi pubblici, passato al Sole 24 Ore insieme al decreto di riordino della gestione dei tavoli di crisi: il tutto presentato come una decisione unilaterale imposta a Todde, che invece rivendica di aver partecipato alla stesura

Mentre manca meno di un mese ai licenziamenti dei 422 operai della Gkn e dei 340 di Whirlpool Napoli, il confronto tra le diverse anime del governo su cosa fare per prevenire o risolvere le crisi aziendali e limitarne le ricadute prosegue via carta stampata. Dire che il clima è teso sarebbe un eufemismo. Il titolare del Mise Giancarlo Giorgetti (Lega) al Meeting di Rimini si è limitato a invocare una “sintesi di tante sensibilità”, affermando di non voler commentare le bozze del decreto antidelocalizzazioni scritte dalla sua vice Alessandra Todde (M5s) con il ministro del Lavoro Andrea Orlando. Ma da giorni – da quando il presidente di Confindustria ne ha bocciato i contenuti – fa filtrare sui giornali il proprio niet al provvedimento: troppo “punitivo”, anche se l’ultima versione a dire il vero non prevede più black list né sanzioni.

Todde dal canto loro fa sapere che quel testo non è affatto sconosciuto al ministro, come è stato scritto in questi giorni: all’inizio di agosto è stato condiviso con gli uffici di Giorgetti, da cui sono anche arrivate richieste di modifica. Poi Orlando l’ha inviato anche al premier Mario Draghi. La controreplica, sempre anonima, è subito servita sul Corriere: “Condividere un testo è un concetto molto diverso da trasmettere una bozza già scritta”. L’ultimo capitolo della guerra di trincea (mediatica) è l’atto di indirizzo di Giorgetti sulle aziende destinatarie di incentivi pubblici passato al Sole 24 Ore. In breve, le imprese che ricevono aiuti dal Mise dovranno impegnarsi ad assumere “prioritariamente” lavoratori coinvolti nei tavoli di crisi o comunque percettori di ammortizzatori sociali. L’intervento è in tutta evidenza complementare rispetto alle bozze del decreto sulle delocalizzazioni, che tra il resto prevede l’obbligo per chi avvia un licenziamento collettivo – pena lo stop alle sovvenzioni pubbliche per 5 anni e l’aumento di 10 volte del “ticket licenziamento” da versare all’Inps – di mettere a punto un piano che limiti le ricadute occupazionali ed economiche della decisione.

Ma il quotidiano di Confindustria lo presenta esplicitamente come una strada alternativa (“un’impostazione diversa”) e una decisione unilaterale del ministro poi “trasmessa” alla Todde e all’altro viceministro, Gilberto Pichetto Fratin. Se così fosse sarebbe un evidente sgarbo istituzionale, dato che la viceministra M5s ha la delega ai tavoli di crisi. Lo stesso vale per il secondo atto di cui dà conto il Sole, un decreto di riordino delle procedure di gestione dei tavoli di crisi: “Una cornice entro la quale, evidentemente, dovrà muoversi anche la viceministra”, scrive il giornale di viale dell’Astronomia, evocando una sorta di commissariamento (non è forse un caso se da Rimini il ministro ha chiosato che “il sottoscritto rispetta le deleghe che ha affidato ai propri sottosegretari che operano nei diversi settori e del cui lavoro ho rispetto”). Ben diversa la versione dell’entourage della viceministra, secondo cui i documenti sono stati discussi e condivisi con la Struttura per le crisi di impresa coordinata da Luca Annibaletti e le linee guida sulla gestione delle vertenze non sono che l’ufficializzazione di un modus operandi adottato dalla Todde fin dal settembre 2019, quando è approdata al Mise come sottosegretario nel governo Conte. E da allora i tavoli aperti sono diminuiti da 150 a 87.

Sullo sfondo rimane il merito. Cioè la necessità – al netto della libertà di impresa sancita dalla Costituzione e della libertà di stabilimento all’interno dell’Unione europea – di avere una leva per intervenire su aziende che se ne vanno e licenziano pur non essendo in crisi e dopo aver ricevuto soldi pubblici. L’ipotesi di imporre la stesura di un piano per ricollocare i lavoratori, soggetto a valutazione da parte del Mise, sembra il minimo sindacale. In Spagna, descritta da Carlo Bonomi come un Eldorado verso cui le imprese migreranno per sfuggire a chi qui in Italia vuole “colpirle”, chi avvia un licenziamento collettivo è tenuto a proporre alle persone che lascia a casa un piano di ricollocamento avvalendosi di società specializzate. Quanto alla possibile esclusione da futuri incentivi statali per le imprese che chiudono senza tentare di trovare un nuovo posto per i lavoratori, Giorgetti non dovrebbe avere nulla in contrario. A fine marzo 2018, dopo il caso K Flex, l’allora capogruppo della Lega alla Camera firmò una proposta di legge di Massimiliano Fedriga in base alla quale le aziende che avessero delocalizzato la produzione avrebbero dovuto restituire i contributi pubblici in conto capitale ricevuti fino a quel momento. Poi il governo gialloverde di cui era sottosegretario alla presidenza del Consiglio varò il decreto Dignità, con tanto di sanzioni salate – rimaste sulla carta – per chi si trasferisce all’estero dopo aver incassato aiuti di Stato per investire in Italia.