Cronaca

Del mio G8 di Genova, vent’anni dopo, conservo ancora alcuni cimeli

Del G8 2001 di Genova, vent’anni dopo, conservo alcuni cimeli. Sulla mensola di una delle librerie, nel mio studio, prendo due grossi bossoli di alluminio: sono (leggo la parole stampigliate sopra) cartucce calibro “40 mm”, una “al CN”, l’altra “al CS”. Le annuso: fino a qualche anno fa scaturiva ancora qualcosa che pizzicava, ora si sono sedate. Ai tempi ce n’erano tantissime nelle strade di Genova, all’esterno della zona rossa in cui erano riuniti i grandi della Terra.

Cerco online, per la prima volta, informazioni su quelle scritte. Arrivo a Wikipedia, che nel 2001 era appena nata (a gennaio negli Usa, a maggio in Italia) e ancora sconosciuta. Scopro che il gas CN è cloroacetofenone: “Una sostanza usata come gas lacrimogeno. È stato oggetto di studi durante la Prima e la Seconda guerra mondiale ma non fu mai utilizzato. Il suo primo utilizzo è stato in Vietnam da parte dell’esercito statunitense. A causa della sua elevata tossicità è stato sostituito dal gas CS e dallo spray al peperoncino, più efficaci e meno pericolosi. Come il gas CS, questo composto irrita le mucose (orali, nasali, congiuntivali e tracheobronchiali). A volte può causare perdita di equilibrio, disorientamento e svenimento. Più raramente anche irritazione cutanea e dermatite da contatto”. Non so quando sia stato sostituito, in Italia, con il CS; sulla cartuccia c’è la data di produzione del lotto: gennaio 1994.

Il gas CS è quello “meno tossico”, l’orto-clorobenziliden-malononitrile, di cui in Italia è consentito l’uso dal 1991. Si tratta di “una sostanza […] prevalentemente utilizzata dalle forze dell’ordine per il controllo dell’ordine pubblico. È inoltre considerata anche come un’arma chimica in caso di utilizzo in guerra (sentenza della Cassazione 30 gennaio 1982). Il gas CS fu scoperto nel 1928 e […] fu sviluppato e testato segretamente a Porton Down in Wiltshire, Inghilterra, negli anni Cinquanta e Sessanta. Inizialmente fu usato sugli animali, successivamente su volontari dell’esercito britannici […] La maggior parte degli effetti sono a breve termine, ma alcuni riportano leggeri strascichi addirittura dopo mesi. […] Studi del 1989 hanno associato l’esposizione al CS con gli aborti spontanei […]”. La “mia” cartuccia risulta prodotta nel gennaio del 2001. Continua a essere usato in Italia.

A questo punto approfondisco. Trovo sul web un articolo del settimanale britannico The Economist, pubblicato a fine 2019, e dedicato alla repressione a Hong Kong. Scopro che quei gas lacrimogeni sono vietati (in teoria) durante le guerre, in base alla convenzione sulle armi chimiche del 1993. Ironia – si fa per dire… – della sorte, nelle operazioni di ordine pubblico si possono utilizzare. Brian Castner, specialista di armi per Amnesty International, sostiene che bisognerebbe usarlo almeno senza infierire oltre misura sui manifestanti: “La folla deve poter accedere a un percorso nel quale disperdersi, l’area dev’essere ben ventilata e il gas deve essere lanciato per terra di fronte ai manifestanti, non in aria o ad altezza testa, soprattutto quando le bombole che li contengono sono grandi e potenzialmente letali, come in Iraq”.

Nel 2001 non mi ero posto il problema delle qualità di quel gas. Semmai avevo impressa nella memoria qualche manifestazione della mia gioventù, nel periodo della contestazione, tra anni Settanta e Ottanta: non ero un facinoroso, ma in qualche nuvola di lacrimogeni ero finito. Appena arrivato a Genova per il G8 una dirigente di polizia mi aveva detto: attento ai gas in uso adesso, sono molto peggio. Vero. Di certo lì, vent’anni fa, si usarono i gas lacrimogeni in tutt’altro modo rispetto alle indicazioni di Amnesty: con le bombole spesso si colpivano in pieno le persone, nel mucchio. Migliaia di cartucce furono sparate per strada, anche negli androni dei palazzi in cui cercavano rifugio giovani e meno giovani: gente per lo più inerme, al contrario dei teppisti chiamati “black bloc”, usciti stranamente quasi indenni da Genova.

Il 19 luglio ero arrivato a Genova (città in cui sono nato) da Bari, come cronista (all’antica) del Corriere del Mezzogiorno pugliese, dorso di cronaca locale del Corriere della Sera; con me c’era la collega Giovanna Bruno. Avevamo intrapreso il viaggio con circa duecento ragazzi pugliesi: da Bari fino a Genova Brignole, nella notte, sulle vecchie carrozze di un treno speciale. Il secondo giorno, il 20 luglio, scoppiarono gli scontri, fomentati dai soliti misteriosi black bloc mascherati. Ecco le cariche – contro tutti gli altri manifestanti, pacifici – di centinaia e centinaia di agenti: carabinieri, poliziotti, finanzieri, persino uomini dell’ormai ex Corpo forestale dello Stato. Poi fumo, botte, vetrine e auto sfasciate, cassonetti e blindati in fiamme, urla per strada e dalle finestre.

In quel caos provai anche il lacrimogeno al peperoncino: un carabiniere coperto da una maschera antigas mi guardò, si avvicinò, osservò le mie insegne (ufficiali e ufficiose) da giornalista appese al collo; poi mi spruzzò lo spray irritante sulla faccia. Bruciava tutto. Trovai una fontana, mi sciacquai, ma bruciava tutto ancora di più. Dopo mezz’ora il dolore passò. Poco lontano, nei giardini pubblici, gruppi di gente qualsiasi, per bene, inclusi boy scout, suore e preti: sorpresi dall’esplosione di rabbia e dal gas, affranti e impauriti.

Intanto, all’interno della zona rossa, il summit internazionale andava avanti. Io – grazie ai miei accrediti – potevo entrare e uscire attraverso i pochi varchi, presidiatissimi. Ricordo sotto i portici la polizia a cavallo con gli animali coperti da armature di plastica, appostata accanto ai bar aperti, mentre l’odore acre dei lacrimogeni arrivava fin lì, a coprire l’aroma dei caffé e delle brioche. In quell’atmosfera surreale, vidi sfilare, nella piazza davanti al Palazzo Ducale, i capi di Stato: da Putin e Bush, da Berlusconi a Blair, per citarne alcuni.

Appresi la notizia della morte di un ignoto manifestante mentre stavo scrivendo un articolo nella redazione del Secolo XIX, che mi aveva ospitato. Il nome della vittima, Carlo Giuliani, 22 anni, lo sentii per la prima volta in tarda serata: un amico e collega genovese mentre eravamo in auto ricevette una telefonata dal fratello minore. “Carlo è morto, il mio amico…” gli disse. Avevano giocato insieme da bambini. Poi il resto: altre cariche, il blitz indegno nella scuola Diaz, gli abusi nella caserma di Bolzaneto, pochissimi funzionari sanzionati, alcuni persino promossi.

Rieccomi nel 2021. Metto di nuovo i bossoli sulla mensola. Accanto, appeso a un gruccia, c’è il gilet fosforescente con la scritta “giornalista – press” a caratteri cubitali, fornitomi da Ordine e sindacato dei giornalisti liguri al mio arrivo. Lo indossavo anche quando quel carabiniere decise, chissà perché…, di farmi provare lo spray al peperoncino. Da qualche parte credo di avere ancora i due accrediti, quello ministeriale e quello del Genoa Social Forum. Che dire… Bisogna ricordare quegli anni, anche se non è un bel ricordo. Semmai – guardando ciò che è successo dopo, fino al recente massacro nel carcere di Santa Maria Capua Vetere – viene il sospetto che un ventennio sia passato invano. Ma questa è un’altra storia. Forse.