Calcio

Europei 2021 – Tiri Mancini | Fuori tre quarti del Patto di Visegrad. Ogni tanto il calcio si ribella

Russia, Ungheria, Polonia, Turchia fuori dalle… palle dell’Euro calcistico. Eliminate. Per lo strano ed imprevedibile gioco dei destini incrociati, il football (e la propaganda) di questi Paesi illiberali ha fatto cilecca in modo clamoroso. Non solo. Con l’affossamento anche della Slovacchia, tre quarti del Patto di Visegrad – mina vagante della destabilizzazione nell’Unione Europea – è andato in frantumi, tutto impietosamente ripreso dalle telecamere delle dirette mondovisione dagli stadi.

Laddove ha fallito la politica, ha vinto dunque il calcio che ha un immenso impatto emotivo sugli spettatori e sui tifosi. Con quel che ne consegue, a cominciare dalla battaglia tra l’Europa dei valori democratici e il sovranismo, espressa con gesti altamente simbolici (gli inginocchiamenti, le fascette e le illuminazioni degli stadi coi colori dell’arcobaleno) che l’Uefa gestita dallo sloveno Aleksander Ceferin combatte e cerca di impedire accampando alibi ipocriti: “Siamo un’organizzazione neutrale a livello politico e religioso”. Invece, giorno dopo giorno, le invasioni di campo della politica e della lotta per i diritti umani sono state sempre più numerose. E più coraggiose. Insomma, i gol più significativi di queste convulse settimane li hanno realizzati i bomber che hanno infranto le vetrine di Putin, Orban, Morawiecki ed Erdogan. Questi sì che sono stati tiri… mancini! Peccato che l’Ue, la Nato e Joe Biden non dispongano di attaccanti così efficaci.

È passata l’Ucraina. Alla faccia di Putin. Avrebbe voluto far indossare ai suoi giocatori una maglia con sopra la mappa del Paese che include la Crimea annessa dalla Russia nel 2014, ma l’Uefa ha detto che quella mappa andava tolta, mentre poteva restare il motto ricamato dentro il colletto, “Gloria agli Eroi”. Kiev voleva denunciare all’opinione pubblica e a quella pallonara i soprusi di Putin, lo scontro per la “maglietta politica”, sebbene perso, è stato paradossalmente vinto perché ne hanno parlato tutti. Che era lo scopo prefissato.

Per Viktor Orban, lo smacco è ancor più doloroso, lui si sente il re del football ungherese (da giovane è stato un discreto calciatore dilettante), più volte ha solennemente dichiarato che vuole restituire all’Ungheria il suo illustre passato, a prezzo di faraonici investimenti, di esenzioni fiscali e di crediti europei. La squadra allenata dall’italiano Rossi ha pareggiato orgogliosamente coi francesi campioni del mondo, coi tedeschi, ma non è bastato. Ha infatti rovinosamente perso coi portoghesi, una frana provocata dall’ autogol, in fin di partita, del difensore che si chiama… Orban. All’anagrafe, Vilmos Tamàs detto Willi, giocatore tedesco che milita nel Lipsia ed è stato naturalizzato magiaro.

Lo sventurato Willi Orban si è ripetuto contro la Germania. Ha tradito l’omen nomen che il premier di Budapest sperava di sventolare. Il capo del governo ungherese che ha appena promosso leggi da più parti ritenute discriminatorie (l’ultima, contro la “propaganda omosessuale”), ama così tanto il calcio che nel villaggio di Felcsut, dove ha trascorso l’infanzia, ha fatto costruire un piccolo stadio. Può ospitare 3.816 persone, in realtà più del doppio degli abitanti. Solo una strada lo separa dalla casa di campagna di Orban: un tiraccio e il pallone gli cade nel giardino… accanto alla stadietto ci sono altri undici campi d’allenamento, per i giovani che frequentano la Puskas Akadémia. Secondo il sito 24.hu, la fondazione che gestisce il club di Felcsut avrebbe ricevuto 32,2 miliardi di fiorini (90 milioni di Euro) tramite complessi meccanismi finanziari…

Né può gioire Erdogan, al potere da 19 anni. Giorni fa, in un’intervista uscita su La Stampa lo scorso 10 giugno, la scrittrice Esmahan Aykol (ha pubblicato un racconto nell’antologia Il calcio in giallo, edizioni Sellerio, 2016), è stata lapidaria: “In Turchia tutto il sistema è costruito intorno alla corruzione e alla frode e il calcio non sfugge a questa logica che negli ultimi dieci anni ha logorato il Paese (…) in Turchia il calcio è l’ennesima religione istituzionalizzata”. Il calcio, dice Aykol, viene “continuamente usato come propaganda”, in un contesto di “islamo-fascismo ibrido” e di “idee primitive”. All’insegna dell’ezan (la preghiera). Della bayrak (la bandiera). Del varan (la patria). Un bombardamento di slogan. Per fortuna, ogni tanto il calcio si ribella. Anche perdendo tre partite su tre. Come ha fatto la Turchia, l’ultima della classe.