Scienza

Covid, pazienti cardiovascolari temono il contagio. “Con infarto ogni 10 minuti di ritardo aumenta la mortalità del 3%”

L'appello: “In caso di dolore al petto o affanno del respiro occorre chiamare subito il 118. Le procedure urgenti vengono effettuate giorno e notte, in tutti i centri di riferimento per il trattamento invasivo delle patologie cardiovascolari”

L’infarto, più di altre malattie cardiovascolari è una patologia strettamente tempo-dipendente. Per ogni 10 minuti di ritardo nella diagnosi e nel trattamento, la mortalità aumenta del 3%, “in caso di dolore al petto o affanno del respiro occorre chiamare subito il 118. Le procedure urgenti vengono effettuate giorno e notte, in tutti i centri di riferimento per il trattamento invasivo delle patologie cardiovascolari”. Questo l’appello di Giuseppe Tarantini, direttore Emodinamica e Cardiologia Interventistica dell’Azienda ospedaliera Università di Padova e Presidente del Gise, la Società Italiana di Cardiologia Interventistica che ha promosso Sicuri al cuore, la prima campagna nazionale per riportare in ospedale i pazienti cardiovascolari spaventati dal contagio da Covid-19.

Da un’analisi del Gise effettuata su un campione di 54 Unità Coronariche distribuite sul territorio nazionale, è emerso che nella seconda ondata è quattro pazienti su dieci non va in ospedale per paura del contagio. Quindi i centri di emodinamica sono riusciti a ripartire solo parzialmente, con un impatto negativo più evidente per gli interventi per le patologie valvolari rispetto agli interventi sulle patologie coronariche. L’onda d’urto del Covid19 sta avendo un impatto – indirettamente – sull’interno sistema sanitario nazionale, “questi allungamenti nei tempi di ripartenza causeranno inevitabilmente in un prossimo futuro un aumento di mortalità in lista di attesa soprattutto per le patologie di classe A, soprattutto in assenza di sistemi organizzativi che possano cogliere tempestivamente eventuali aggravamenti clinici”.

A causa della necessaria rimodulazione avvenuta negli ospedali, specie nelle regioni a maggior diffusione della pandemia, una parte delle risorse cardiologiche (in termini di posti letto disponibili per esami cardiologici elettivi, ma anche di operatori sanitari operanti in reparti cardiologici) è stata riconvertita alla gestione dell’emergenza Covid 19. A questo si aggiunge anche il blocco, operato a discrezione di alcune regioni, delle visite ambulatoriali con priorità bassa (C e D) nonché di tutta l’attività ambulatoriale in regime di libera professione, tutto questo secondo il Presidente del Gise ha fatto registrare “un drastico calo delle attività di screening per patologie cardiovascolari che avrà ripercussioni importanti nei prossimi mesi”.

A questi dati preoccupanti, dei primi mesi autunnali del 2020, si aggiungono le ripercussioni accumulate durante la prima ondata della pandemia. Nella prima ondata i dati sono ormai acquisiti e mostrano una riduzione di circa il 50% delle ospedalizzazioni per infarto miocardico acuto rispetto al 2019 questo significa che “la mortalità complessiva di questi pazienti è contestualmente incrementata dal 2.8% al 9.7%”. È fondamentale “trattare per tempo i pazienti cardiopatici offre enormi benefici, in termini di prognosi e qualità della vita, oltre che scongiurare spesso esiti letali della malattia – Tarantini suggerisce – quindi, non solo di adoperarsi per il contenimento dei tempi delle liste d’attesa accumulate, con investimenti urgenti e adeguati, ma anche strutturare un programma di azioni organizzative e gestionali per dare priorità ai pazienti con problemi cardiaci”.

Anche gli accessi in Pronto Soccorso hanno subito una riduzione sia in prima che seconda ondata “a causa del timore, diffuso nella popolazione, di poter contrarre il Covid all’interno dell’ospedale stesso. Questo – conferma Tarantini – ha comportato purtroppo in taluni casi una diagnosi tardiva di problematiche che avrebbero meritato invece interventi tempestivi, come appunto l’infarto miocardico acuto, giunto spesso tardivamente e con maggiori complicanze e mortalità”. Durante la prima ondata gli accessi in Pronto Soccorso si erano drasticamente ridotti (anche di oltre il 50%) mentre “in questa seconda ondata, grazie ad una maggior informazione rivolta al pubblico, la popolazione ha riacquistato in parte fiducia nei percorsi ospedalieri, per cui gli accessi permangano ridotti, ma non come la prima ondata”.