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Assalto a Capitol Hill: il Novecento è davvero finito

Il 2021 apre col botto: l’assalto a Capitol Hill, il Tempio e il simbolo della democrazia nel mondo. Capitol Hill era per tutti la nuova Atene, il Partenone della contemporaneità, la casa della partecipazione popolare alla politica. L’immagine beffarda dell’uomo con le corna da vichingo che si appropria dello scranno presidenziale impone alcune riflessioni sulla percezione nella popolazione delle regole dello Stato di diritto e sulle cause che hanno portato alla perdita di capacità limitativa della reazione di dissenso, con riferimento a due ambiti decisivi quali il divieto di farsi giustizia da sé e che il Parlamento, come casa di tutti i cittadini, è un concetto metaforico: non è possibile affermare che l’assalto è legittimo perché quella è “la casa di tutti noi cittadini”, come affermato da un rivoltoso.

E’ necessario comprendere come mai tutto questo possa essere accaduto oggi, nel 2021. Ci viene detto che non sarebbe mai potuto avvenire in passato perché non esisteva “un Trump” e cioè un presidente populista, così spregiudicato da istigare la presa violenta (seppure in forma un po’ “all’americanata”) dei palazzi della politica. Questo è vero in parte: la storia conosce bene le rivoluzioni e il rovesciamento dei regimi attraverso l’assalto ai palazzi del potere. Simbolicamente e, come detto, un po’ “in salsa burger hollywoodiana”, a Washington è accaduto qualcosa di simile alla presa della Bastiglia o all’assalto del Palazzo d’Inverno. Con questi episodi del passato c’è infatti qualcosa in comune di molto profondo: l’indicazione di uno scollamento irreversibile tra l’antropologia del linguaggio delle istituzioni e quello oramai dominante presso la gente comune.

Heidegger diceva che “il linguaggio è la casa dell’essere”: parlare la stessa lingua, seppure dicendo cose antitetiche, contiene comunque un riconoscimento di legittimità; parlare linguaggi che non possono comunicare tra loro, anche dicendo le stesse cose, è l’anticamera dello scontro. “Girarla” su Trump vorrebbe dire semplicemente sviare la questione e non rispondere al perché di tutto questo (che riguarda tutti noi, come la presa della Bastiglia ha riguardato tutto il mondo di fine Settecento).

La risposta è radicale e, nell’ottica linguistica ed antropologica, si articola a partire da due argomentazioni. La prima: la democrazia intesa come insieme di regole inviolabili e sacre di fair play istituzionale tra i contrari è stato un sistema perfetto fino a quando il mondo era diviso in due blocchi contrapposti che si minacciavano a vicenda e, in Occidente, l’alternanza tra idee (progressiste e conservatrici) era un fatto di forma più che di sostanza (era decisivo mantenere il proprio posizionamento geopolitico nello scacchiere mondiale).

La seconda: la democrazia delle istituzioni, con le sue sacralità (che, come si usa dire, sono il “suo sale”) vive, da un paio di decenni, ad un ritmo linguistico-antropologico totalmente incompatibile con quello della società, dominata dalla cadenza martellante e incessante dei social, dei tweet e della possibilità, in un attimo, di raggiungere qualsiasi parte del mondo con un commento, una presa di posizione, una reazione (anche la più spregiudicata). Questa è la chiave per comprendere il rapporto di oggi tra Ancien Regime delle istituzioni e milizie rivoluzionarie. La democrazia girovaga incipriata sul calesse ottocentesco, mentre la gente comune utilizza in modo orgiastico e dissennato la velocissima giostra delle vertigini travestita da strumento democratico capace di dare voce (liberale) a chiunque.

I due mondi sono incompatibili e l’esito di questa differente prospettiva antropologica non può che essere quello a cui abbiamo assistito il 6 gennaio 2020. Schierare la Guardia Nazionale serve per riportare l’ordine ma ormai “il dado è tratto”. L’Ancien Regime è stato violato in modo irrimediabile perché è irrimediabilmente incompatibile con le oramai desuete tempistiche del vivere sociale (piaccia o non piaccia, la realtà è questa).

Quello che accade alle regole della politica è quanto accade alle regole della giustizia. Entrambi questi settori decisivi della democrazia debbono avere il coraggio di sapersi ristrutturare in conformità al linguaggio della contemporaneità che cambia. Sono istituzioni nate “in bianco e nero” ed oggi si trovano a dover fare i conti con una realtà pirotecnica. Ai tempi di John Lennon era rivoluzionario andare a suonare la chitarra davanti alla Casa Bianca con i simboli della pace e le treccine. Oggi, in un pomeriggio, è possibile mobilitare una nazione-continente per giocare a dare l’assalto al Campidoglio di Washington e ”dimostrare cosa si può fare e tornare a casa in pace”.

La sfida della democrazia è quella di saper comprendere come rendere compatibili queste velocità in contrasto. Da questo blog l’ho già detto tempo fa: il Movimento 5 Stelle ha compreso, primo al mondo, la decisività di istituzionalizzare questo linguaggio sociale. Non è sufficiente che i politici cinguettino qua e là per poi chiedere di rispettare le istituzioni. Maria Antonietta docet. La chiave è riuscire a rendere compatibile la forma sacra della democrazia con il linguaggio consolidato del sociale. Non è un bilanciamento facile e gli Usa e l’Europa sono in ritardo. Lo dimostrano i fatti di ieri e la reazione univoca contro il Presidente dai capelli arancio.

La scommessa degli Stati Uniti e di tutto l’Occidente è quella di dimostrare che Vladimir Putin si è sbagliato nel dire che “la democrazia è oramai finita”. Il 2021 tra pandemia e assalitori con le corna vichinghe al Parlamento di Washington sembra volerci dire una cosa sola: il Novecento è veramente finito e in un attimo rischiamo di trovarci in una terra assai lontana da quella in cui nei Palazzi si faceva politica (anche sporca) e sulle piazze si cantava Imagine (mantenendo però una comunanza di antropologia linguistica).