Cinema

Jean-Luc Godard, i novant’anni dell’occhio più inquieto e irregolare del cinema

Novant’anni, Jean-Luc Godard. L’occhio più inquieto e irregolare che il cinema abbia mai conosciuto compie oggi novant’anni. Tre quarti della vita del cinema, che Godard ha attivamente accompagnato per settant’anni, prima come critico, poi come cineasta. Si sbaglierebbe però a dividere il percorso di Godard in due fasi, perché per lui già scrivere voleva dire fare cinema e, come diceva, “tra lo scrivere e il girare c’è solo una differenza quantitativa, e non qualitativa”. Si può fare una cosa facendo l’altra e viceversa, con un atteggiamento un po’ da “contrabbandiere”, secondo una bella espressione di Serge Daney.

“Io sono al tempo stesso svizzero e francese, la mia situazione è quella di chi abita dai due lati della frontiera, non solo quella di essere un frontaliero, ma di essere un doppio frontaliero, sempre straniero presso l’uno e presso l’altro e con un bisogno di passare da un lato all’altro della frontiera, come il cinema, e ciò che mi piace, penso, è la comunicazione, il fatto di passare, di non fissarsi”. Così diceva nel 1980 Jean-Luc Godard parlando di se stesso, del suo modo di vedere la (sua) vita e il cinema.

Aveva 50 anni allora Godard, un intenso passato e un altrettanto intenso futuro, entrambi segnati da una condizione interstiziale, da un “entre-deux” che da sempre ha costituito la sua ricerca. Del resto tutto è comunicazione, diceva ancora recentemente Godard in un’intervista a proposito della situazione attuale: pensiamo al virus, che è anch’esso una forma di comunicazione perché ha bisogno di passare dall’uno all’altro per sopravvivere.

Controcorrente non solo quando scriveva contro il “cinema di papà” insieme ai suoi compagni di strada ai Cahiers du cinéma, ma anche quando all’interno stesso della prestigiosa rivista gialla cercava di smarcarsi dall’autorità/paternità del grande André Bazin: “lui era per il piano-sequenza”, diceva Godard, “io trovavo che il vecchio découpage classico non fosse così male perché il découpage sapeva andare all’essenziale, e per esempio cogliere e restituire un’idea prolungandola, come faceva Otto Preminger lavorando sul volto”.

Il cinema associa, accosta, rompe e corrompe. Corrompe per esempio la purezza di un testo, di un quadro, di una scena, di un gesto, per far scaturire altri testi, altri quadri, altri gesti, come al massimo grado vediamo nelle Histoire(s) du cinéma. Già nel titolo questa serie di otto trasmissioni tv realizzata alla fine degli anni Novanta evoca singolarità e pluralità, l’uno e il molteplice, la possibilità di (s)comporre un’idea di cosa è stato il cinema secondo una serie di sovrapposizioni, interposizioni, traduzioni intermediali.

I film di Godard sono pieni di citazioni, e ci sono intere tesi di dottorato costruite sul loro (vano) inseguimento: non è un esercizio di erudizione quello che muove Godard, ma, al contrario, il desiderio di produrre una scintilla. Il “falso raccordo” praticato nel montaggio, la lavorazione elettronica dell’immagine che si sfrangia o si demoltiplica sono passaggi di un percorso volto a cercare questo senso ulteriore. Del resto l’ibridazione è sempre stata una stella polare nell’attività di Godard: “faccio saggi in forma di romanzo o romanzi in forma di saggio”, affermava ai tempi dei primi film, “solo che li filmo invece di scriverli”.

E nel 1965 in Pierrot le fou Jean-Paul Belmondo esclamava qualcosa che assomigliava all’intero programma del cinema di Godard: “Ho trovato un’idea di romanzo. Non descrivere più la vita delle persone, ma soltanto la vita. La vita da sola: quello che c’è tra le persone, lo spazio, il suono e i colori. Bisognerebbe riuscire a fare questo. Joyce ci ha provato, ma si deve poter fare meglio”. Cioè smettere di rappresentare “la vita delle persone” chiudendola in un racconto ma cercare di dare un volto a ciò che “circonda”, divide e unisce le persone. L’infilmabile che diventa un programma cinematografico. Associare ciò che normalmente non dovrebbe stare insieme, anche come pratica di cinema. Per esempio non cercare la “perfezione” della ripresa ottenuta con tentativi successivi, ma ottenere un risultato definitivo attraverso l’immediatezza. “L’immediato è il caso. E nello stesso tempo è definitivo. Quello che voglio è il definitivo per caso”.

Ogni cinefilo che si rispetti ha in testa centinaia di immagini del cinema di Godard, quelle che ci hanno fatto interrogare, capire, sfidare il cinema. Ma andatevi a rivedere il trailer del Disprezzo (in edizione originale, per favore) e sentirete cosa vuol dire amare il cinema!