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No, Trump non vincerà il Nobel per la Pace

No, Donald J. Trump, presidente degli Stati Uniti d’America, non sarà il prossimo premio Nobel per la Pace. Non lo sarà, nonostante Christian Tybring-Gjedde, l’ultra-reazionario – e alquanto xenofobo – fondatore del Partito del Progresso norvegese, un vero e proprio trumpista in salsa vichinga, abbia per la seconda volta formalmente avanzato la sua candidatura, ultima d’un elenco già rimpinguato da altri 317 nomi.

Non lo sarà a dispetto delle grida di gioia (“finalmente!”, “era tempo!”, “nessuno più di lui lo merita!”) subito innalzate al cielo dai sacerdoti del culto. E non lo sarà soprattutto perché l’apposito comitato all’uopo eletto dallo Storting (il parlamento norvegese) ovviamente non ha – per quanto discutibili siano state in passato molte delle sue scelte – intenzione alcuna di coprirsi di ridicolo di fronte al mondo.

Non solo – è fin troppo facile pronosticare – Trump non vincerà il Nobel, ma assai probabile è che, il giorno dell’assegnazione del premio, al presidente Usa toccherà deglutire, oltre all’amaro boccone d’una sconfitta (che sicuramente verrà da lui denunciata come frutto di fraudolente manovre), anche un ancor più irritante rospo. Il tutto con la più che prevedibile conseguenza d’un nuovo e ancor più doloroso travaso di bile.

Basta infatti, per presagire l’imminente stizza trumpiana, un’occhiata alla lista dei favoriti. Stando a Betfair – uno dei più frequentati siti di scommesse online – tre sono, allo stato delle cose, i più probabili vincitori. In testa a tutti, quotata 5-2, c’è l’Organizzazione Mondiale della Sanità, quella Who che, per ordine di Donald Trump, è stata, nel pieno della pandemia, ripudiata ed abbandonata dagli Usa (o che, più propriamente, è stata da Trump usata come capro espiatorio).

E a breve distanza seguono la premier neozelandese Jacinda Andern (quotata 5-1 in virtù della sua efficace strategia anti-virus) e Greta Thunberg, la ragazzina svedese divenuta simbolo della lotta contro il riscaldamento globale (quota: 3-1). Provate a pensarci. L’organizzazione “nemica” sulla quale il presidente Usa ha riversato colpe che erano soltanto sue. E, in alternativa, due donne. Entrambe, in quanto tali, inevitabili fonti di malumore per un personaggio la cui misoginia ha, in ogni fase della sua esistenza, toccato vertici di straordinaria volgarità.

Ancor più, se si considera che una di queste due molto importune femmine, Greta Thunberg, con Trump già era entrata (lei con grande eleganza, lui con la consueta sguaiataggine) in rotta di collisione via Twitter. Le probabilità che la storia finisca, per il presidente, non solo con una non-vittoria ma con una sorta di spernacchiante sberleffo sono dunque, a tutti gli effetti, molto alte.

Vero è che, grazie al trattato commerciale recentemente siglato tra Emirati Arabi e Israele – un trattato che non è, in alcun modo, un trattato di pace, e che per la pace in Medio Oriente non pochi analisti addirittura considerano dannoso – Trump è finalmente diventato visibile ai radar dei bookmaker (oggi è quotato 20-1, al pari di Bill Gates, ma molto al di sotto – orrore! – di Black Lives Matter). Vero è anche, tuttavia, che questa molto illusoria entrata nell’Olimpo dei “quotabili” altro non farà, alla fine, che aumentare la sofferenza per la sconfitta.

Trump non vincerà, a dispetto della solerzia del suo alter ego scandinavo, il Nobel per la Pace. Non lo vincerà quest’anno, né lo vincerà – dovessero gli americani, grazie alla farsa dei collegi elettorali, prolungare l’incubo della sua presidenza – nei tempi a venire. Non lo vincerà, in ultima analisi, perché tra lui (che, è bene ricordare, si è sempre detto favorevole alla pratica della tortura) e la pace non può esistere rapporto alcuno.

Due sole annotazioni, tanto per gradire. In questi tre anni e passa gli Usa hanno superato, in materia di numero di civili massacrati, i Talibani che combattono. E Trump ha, da par suo, posto il veto a una risoluzione del Congresso che interrompeva i finanziamenti ad hoc all’Arabia Saudita, responsabile di indicibili mattanze nello Yemen).

Non lo vincerà, quel premio, Donald J. Trump. Ma resterà nella storia – e questo è quel che rende davvero umiliante le sue non-vittorie – come l’unico che, incurante del ridicolo, abbia ripetutamente e pubblicamente rivendicato il proprio diritto a vincerlo. E che, non vincendolo per fin troppo ovvie ragioni, abbia poi denunciato la fraudolenta congiura che di quel premio lo ha privato (prepariamoci a una prossima ed ancor più sgangherata replica).

Trump è convinto che il Nobel gli sia dovuto non solo per trionfi mai consumatisi (o ridotti a puro spettacolo, come la sua nota “storia d’amore” con Kim Jong-Un) ma anche, anzi, soprattutto, per un molto più puerile motivo: perché quel premio già l’hanno dato ad Obama. È lui, Barack Obama, la vera fiamma che alimenta le ossessive, risentite brame con le quali Donald Trump guarda, da quando è presidente, al Nobel per la Pace. Ed è questa ossessione che – ben oltre la già terrificante normalità trumpiana – sempre più frequentemente lo spinge in direzione di deliranti svarioni. Come quando, mesi fa, ha invitato i giornalisti “nemici del popolo” – quelli che hanno scritto quel che a lui meno aggrada, la verità – a restituire i “Noble Prizes (sic, ripetuto varie volte) ingiustamente guadagnati attaccandolo.

Quei “Noble” – è appena il caso di sottolinearlo – erano, in realtà, Premi Pulitzer. E proprio questo è il dantesco castigo che oggi affligge il (si spera ancora per poco) presidente Usa. Il Nobel per la Pace Donald Trump non lo vincerà mai. Ma è condannato, per l’eternità, a vederlo in ogni luogo.