Cronaca

Solo Silvia Romano sa com’è andata: qualunque giudizio pecca di ignoranza

Nella vicenda di Silvia Romano troppi piani si sono sovrapposti per poter estrarre una chiave di lettura unica e semplicistica. Si tratta comunque di un episodio che ci permette di fare alcune digressioni più generali sul tema della presa in ostaggio di un individuo. Quando la parola e il corpo vengono fatti prigionieri si crea una condizione estremamente complessa che può certo influenzare, ma non determinare il libero arbitrio.

I fattori sono: reclusione, libera scelta, paura e corpo. In questo caso non si tratta ovviamente della sola segregazione del corpo finalizzata all’obbedienza, non saremmo qua a parlarne, poiché per questo scopo bastava la forza bruta.

“Winston, come fa un uomo a esercitare il potere su un altro uomo?”. “Facendolo soffrire” rispose. “Bravo, facendolo soffrire”. Non è sufficiente che ci obbedisca. Potere vuol dire infliggere dolore e umiliazione.

Il progetto dei carnefici doveva comprendere anche l’obiettivo di fiaccarne la volontà che avrebbe potuto generare rivolta, ribellione e fuga. I rapitori infatti hanno voluto che lei vivesse per lucrarci, ed essendo canaglie raffinate sapevano di non doverne demolire il pensiero, la voce, per poter alzare la cifra richiesta.

Quando di mezzo c’è la psiche, ci sono diversi metodi per addomesticare la mente e la riottosità del prigioniero. Il primo, che non è il caso di Silvia, ma molto attuale, è dato dalla patologizzazione del dissenso, volta a stigmatizzarne la presunta devianza o pericolosità sociale, convincendo il soggetto ma soprattutto la società antistante che trattasi di persona pericolosa, le cui idee e libere espressioni sono ritenute indubitabilmente provenire da una mente non lucida. E’ il caso, ad esempio, di Dario Musso, oggetto di un brutale e discusso Tso, avvenuto a seguito di pubbliche rimostranze, non dannose per altri, di un libero pensiero, per quanto bizzarro o dissonante esso fosse.

La vera manipolazione non si contenta di invalidare il pensiero del ‘reprobo’ agli occhi della società, quanto piuttosto mira ad incistare nella mente del suddetto l’idea che i suoi pensieri debbano essere cambiati.

“Quante sono le dita che tengo alzate, Winston?” “Quattro”. “E se il Partito dice che le dita non sono quattro ma cinque, quante sono? (…) Lo sai per quale motivo portiamo le persone in questo posto?” Certo non allo scopo banale di estorcerti una confessione o di punirti. Noi non ci limitiamo a distruggere i nostri nemici, noi li cambiamo”.

Io ho incontrato sulla mia pelle qualcosa di simile in una mia esperienza pseudoanalitica, laddove la parola ‘psicotico’ lanciatami in viso era una disperata difesa tesa a mantenere intatta una sovrastruttura fallace e foriera di malessere.

Nei casi di ostaggio del corpo entrano in gioco diverse strategie di sopravvivenza. La più banale è quella di un una accettazione fasulla e momentanea delle opinioni del carceriere per sopravvivere alla punizione, messa ad esempio in atto da molte donne indifese e oggetto di violenza le quali, pur di fermare la valanga di botte e bottigliate, ‘ammettono’ di essersi sbagliate sul conto del carnefice (‘mi hai convinto , me le hai date perché le ho meritate. Però per carità basta’). Il tutto finalizzato a cercare una via di fuga quando il carnefice si assenta.

La situazione di Silvia, e qua entriamo nel campo delle pure ipotesi, appare ancor più complessa perché chiama in causa una variabile soggettiva ed insondabile: la fede. Il carceriere dispone del tempo a capriccio, illimitato, agitando le chiavi della libertà facendole oscillare al mutare del suo stato d’animo. Questo è ciò che si chiama tener l’altro sotto lo scacco dell’angoscia. Ella sapeva di poter essere uccisa in qualsiasi momento, così come poteva pensare che la sua liberazione non sarebbe mai avvenuta.

La mente umana, quando deve fare una scelta impossibile, cerca sempre o quasi un adattamento. Quando sei oggetto di masnade di feroci assassini, tiranni che privano della libertà tenendo sotto l’arma del ricatto te e i tuoi cari, un punto terzo come la religione può essere una libera scelta, ancorché viziata da un’imposizione iniziale. E qua solo la protagonista conosce la verità.

Incontrare un Dio, qualunque esso sia, in forma scritta, con dei precetti, delle regole e degli insegnamenti, può salvare la mente dal deragliamento, e può portare ad un percorso di conversione che, chiamando in causa un terzo, stabilizza la situazione. Dio o Allah si trovano al di là della vittima e del carceriere, il che può riportare tutto ad uno stato di controllo tramite la preghiera.

Io non mi sono mai permesso di indagare quanto fosse ‘reale e sincera’ una conversione con i pazienti che, a fronte di un lutto, una perdita, un momento critico, hanno scoperto il valore salvifico della fede. Non è affar mio. Quello che so è che i credenti hanno una maggior capacità di tenuta rispetto ad eventi critici della vita. A Dio piacendo si vive e si muore, ci si ammala e si guarisce, proiettando in un altrove affanni della vita spesso atroci che diventano in tal modo sopportabili.

Questo è ciò che è successo a Silvia? Non è dato saperlo, dunque qualunque giudizio peccherebbe della non conoscenza della sua storia. Ciò che sappiamo è che la cooperante ha dovuto salvare il corpo e l’anima. Il tempo dirà a lei e solo a lei come ha incontrato il Dio nel Corano, magari sfilandolo simbolicamente dalla mani di quegli immondi assassini che glielo hanno dato.