Cinema

Piccole donne è la risposta necessaria a capire la nostra ‘Elena Ferrante fever’

di Ilaria Muggianu Scano

Ancora Piccole Donne. ‘Ce n’era proprio bisogno?’, ha sospirato qualcuno. Sì, dal momento che l’opera di Greta Gerwig è del tutto propedeutica alla comprensione della nostra Elena Ferrante fever, sebbene le differenze di narrazione ci siano e siano sostanziali.

La timida Lenù arriva, certo, dov’è arrivata Jo March, attraverso lo stesso percorso di costruzione dolente del suo personaggio narrante, perfettamente strutturato assai prima e assai meglio dei caratteri pitturati a favore editoriale. Gerwig non ha paura di dire a gran voce ciò che la Ferrante bisbiglia con garbo tra le pagine de L’amica geniale: per scrivere bisogna avere un grande personaggio da tracciare ma essere “personaggi” in prima persona. Lo hanno ben presente le case editrici che vanno a caccia di nomi dello spettacolo, di web star, calciatori e star planetarie da pubblicare.

Per questo, seppure tanto si è detto di Piccole Donne poco si è sottolineato l’acume con il quale Greta Gerwig dà una lettura moderna dell’operazione “Piccole donne” non nel senso di un’esasperazione della componente femminista, come probabilmente ci si sarebbe aspettati in questo frangente storico. Gerwig va ben oltre e fa ben altro. Per la prima volta nelle sette riduzioni, tra quelle cinematografiche o televisive dell’opera, una regista riesce a distillare con astuzia inaudita la lucida presenza di Louisa May Alcott dentro le viscere di Jo March.

Con provetta e vetrino riesce a sezionare autrice e personaggio educando la tenera e pericolosa ingenuità di generazioni di lettrici che ammirando la ribelle Jo March pensano che basti determinazione e buoni propositi per sfondare nel mondo dell’editoria. Ecco, in una realtà in cui tangibilmente siamo arrivati ad avere più scrittori (presunti) che lettori, l’insegnamento di Greta Gerwig non è da poco.

Senza alcuna ipocrisia, Gerwig proiettando le movenze talvolta sopra le righe e più che spesso nitidamente isteriche di Jo March, tratteggia l’ansia di ogni autrice di diventare personaggio per poter dare respiro alla propria operazione trionfo, di tratteggiare un proprio personale sitz in leben che rapisca i lettori in un viaggio onirico che si traduca possibilmente in fidelizzazione alle proprie opere letterarie. Gerwig, candidata agli Oscar 2020 come migliore sceneggiatura non originale, originale lo è eccome nel rilevare l’interiorità universalizzante della psicologia istrionica di Jo March.

La secondogenita di casa March ha un’evidente personalità narcisista. Da sempre ha avuto un facile pulpito pour épater les bourgeois in una famiglia in cui il rispetto delle convenzioni è l’unica possibilità di non soccombere sotto le minacce esterne di facili profittatori. La famiglia March è composta di sole donne in età da marito, appetibile bersaglio di malintenzionati e malelingue: sembrano accorgersi tutte della necessità di stare al proprio angusto posto, meno che Jo.

La presunta eroina si infischia completamente della sororità tanto che, nonostante l’inesausto ordito di una perpetua retorica familiare, scalpita se ognuna non è ferma al proprio posto ad eseguire ciò che dispone lei. Quando tutte prendono la propria strada, Jo improvvisamente non ha più un palcoscenico da cui provocare scandalo. È solitudine a perdita d’occhio. È allora che ripiega sul matrimonio, dopo una chiacchierata con la madre, con ogni evidenza dedita alla mindfulness, la quale più che la rocciosa donna di carattere cui eravamo stati abituati dal libro e dalle opere precedenti, sembra la quinta figlia incolore di Susan Sarandon nella trasposizione di Gillian Amstrong del 1994.

Al netto di tutto questo, sì, c’era proprio bisogno che qualcuno celebrasse Louisa May Alcott prima delle sue piccole donne. Intramontabile Louisa, tempisticamente perfetta Greta ma, con i suoi tempi, arriva anche Elena Ferrante.

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