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Con Brexit finisce un sogno di integrazione e pace. Ma noi abbiamo il diritto di resistere

Lo scorso 29 gennaio, la senatrice italiana Liliana Segre, sopravvissuta al campo di sterminio di Aushwitz-Birkenau, ha raccontato ai parlamentari europei a Bruxelles la sua esperienza di giovane donna deportata. Lo stesso giorno, gli europarlamentari inglesi hanno salutato i loro colleghi, come conseguenza della Brexit poi ufficializzata il 31 gennaio. In questo giorno di coincidenze, Segre ha espresso un concetto a mio avviso particolarmente significativo: “Io esisto, e anche il Parlamento europeo. Non era questo il disegno di qualcuno”.

La Ceca (Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio), embrione della moderna Ue, è nata dalle macerie di una miserabile guerra mondiale e la sua fondazione ha rappresentato, al tempo, il “miracolo profano” più importante che la storia potesse regalare. Si usciva da una stagione in cui erano prevalsi nazionalismo, razzismo, paura e odio, culminata nell’esperienza della soluzione finale nei campi di sterminio. Liliana Segre ci ha raccontato come all’epoca molti “si voltarono dall’altra parte”, rimanendo indifferenti. Ma, proprio per questo, dopo quella stagione, vinse il desiderio di abbandonare quel mondo di orrori per costruire qualcos’altro.

Agli inizi degli anni Cinquanta, Jean Monnet e Robert Schuman, riuscendo a indirizzare un desiderio di cambiamento espresso dalla società europea del tempo, contribuirono a creare uno spazio comune europeo di produzione del settore carbo-siderurgico. I sei paesi fondatori decisero di aprire il mercato della produzione delle materie prime, eliminando dazi e favorendo gli scambi. La Ceca prese vita in un territorio molto significativo per la storia del nostro continente: al confine tra la Francia e la Germania, scenario di secolari conflitti e lo stesso bacino, quello della Rhur, protagonista della profonda crisi economica degli anni Trenta.

Una scelta da molti motivata da un mero interesse economico, ma che in realtà ha avuto un effetto politico ben preciso: creare una situazione in cui diventava economicamente svantaggioso combattere tra Stati. Così, da 75 anni i paesi membri convivono in pace. Certamente il governo americano con il piano Marshall e la Nato ha contribuito al progetto Europeo (fino al ‘54), ma senza la volontà dei capi di Stato di Francia, Germania occidentale, Italia, Belgio, Lussemburgo e Paesi Bassi, non ci sarebbe stata la possibilità di andare verso un cambiamento virtuoso e reale.

In questi giorni molti si chiedono se la Brexit non rappresenti il primo passo verso un pericoloso cambiamento di rotta, una disgregazione di quel sogno di pace e integrazione. Un dibattito, quello sulla Brexit, polarizzato tra un “sì” e un “no” di cui nessuno davvero conosce le conseguenze. Laura Parker, ex coordinatrice di Momentum (l’associazione inglese legata al Labour party), ha spesso posto l’accento su questo problema: negli ultimi decenni, in Gran Bretagna, si è parlato dello spazio europeo come di un’opportunità economica per la “City” e per i businessman internazionali, senza mai parlare di lavoro, sanità e istruzione – per fare alcuni esempi.

L’Unione Europea è diventata il capro espiatorio delle crisi strutturali dei nostri tempi: povertà, crisi del mercato interno, migrazioni, sono state collegate all’Unione europea. Boris Johnson ha capito come trasformare questo errore in un cavallo vincente per la propria carriera politica. Purtroppo, le crisi strutturali legate alla globalizzazione e a un mondo che cambia molto velocemente non trovano risposte nella chiusura delle frontiere. Troverebbe delle risposte invece in un processo di maggiore democratizzazione e rappresentanza politica dell’Ue. Per fare due esempi, si dovrebbe abolire il sistema di voto all’unanimità del Consiglio europeo e sarebbe necessario dare maggiore potere politico al Parlamento europeo, quasi sempre ignorato dal Consiglio europeo e la Commissione europea sulle questioni più spinose.

Liliana Segre, evocando i tempi bui dell’incertezza e della paura, ci porta a riflettere e a evitare di commettere l’errore di vivere con indifferenza gli eventi – come la Brexit. Non sono d’accordo con quei sedicenti europeisti che sostengono che adesso che senza il Regno Unito sarà più facile completare il processo politico d’integrazione. Se l’Ue non funziona è per colpa di tutti gli Stati membri, nessuno escluso. De-responsabilizzare l’Ue per gli errori commessi scaricando tutte le responsabilità sulla Gran Bretagna significa ignorare i problemi strutturali e politici che la riguardano. La Brexit è una sconfitta collettiva cui non bisogna rassegnarsi. E’ necessario fermarsi a riflettere invece su che tipo di società vogliamo scegliere di costruire e nel caso specifico delle istituzioni europee, come dovrebbe essere riformata l’Unione europea.

In questi giorni di tristezza e di amarezza seguiamo tutti il consiglio della nostra nonna ideale Liliana: “Siate come la farfalla gialla che vola sopra i fili spinati”. La Brexit erige un muro e noi saremo quella farfalla gialla sopra le scogliere di Dover.