Cinema

Sarò blasfemo, ma vedendo ‘Tolo Tolo’ di Checco Zalone mi è venuta in mente ‘La vita è bella’

Per cominciare vorrei dire una sola cosa ai miei “venticinque lettori”. Non state a sentire le distinzioni capziose di chi racconta che Tolo Tolo fa più sorridere che ridere, né chi si chiede come mai il trailer non contenga nessuna immagine del film, né chi sta ancora a discutere se la satira di Checco Zalone castighi adeguatamente i malcostumi – come volevano i latini – o li giustifichi (“ve lo meritate Alberto Sordi/ve lo meritate Checco Zalone”).

Se non lo avete ancora fatto, correte a vederlo. È strepitoso! La prima cosa che mi è venuta in mente vedendo il film è un paragone che magari qualcuno troverà blasfemo. Una ventina di anni fa un altro film comico, La vita è bella, prima di diventare giustamente un indiscusso bene culturale, scatenò un putiferio grazie ad alcuni intellettuali che si chiedevano se fosse lecito ridere a proposito della più grande tragedia della storia umana, la Shoah. Ora possiamo chiederci se è lecito ridere a proposito della più grande tragedia contemporanea, l’emigrazione di milioni di persone dall’Africa verso l’Europa.

La risposta ovviamente è sì, ovviamente se la comicità è ben fatta. Ben fatta non vuol dire corretta, nel senso del banale politicamente corretto. Per capirci, Roberto Benigni usava il paradosso nella forma più gentile e preziosa raggiungendo il sublime quando faceva trasformare in un gioco a premi per il piccolo Giosué le durezze del campo di sterminio.

Zalone lo usa nel modo più pesante e provocatorio che si possa immaginare, quando fa cantare al coro dei migranti un inno alla liberazione che recita “la gnocca salva l’Africa”, quando trasforma il naufragio in una specie di balletto acquatico, quando fa sognare al suo eroe un’Italia completamente africanizzata, in una sequenza onirica di grande fascino visivo (ma ’sto Luca Medici ci sa fare anche con le immagini, forse è nato un regista).

La cosa incredibile del film è la quantità di bersagli che la parodia di Checco riesce a colpire in un’oretta e mezza. E, come sempre accade nella comicità zaloniana, assai più complessa di quanto si tende a credere, il bersaglio non sono solo le cose, le persone ma anche gli stereotipi costruiti intorno a loro. Si ride del solito italiano medio, tutto preso dalla cura del corpo e dall’abbigliamento firmato, e del mito della famiglia, che in realtà aspetta solo di disfarsi di un suo figlio che l’ha coperta di debiti.

Si ride della Puglia con le sue eccellenze gastronomiche e musicali e dei festival culturali, della politica italiana (c’è una formidabile autoparodia di Nichi Vendola) e di quella europea. Si ride della tv italiana locale e nazionale, con i suoi telegiornali prevedibili e i suoi talk rissosi (bravissimi Enrico Mentana e Massimo Giletti a stare al gioco!), e del grande giornalismo, con un intellettualone francese, fighissimo, trombone e tombeur che secondo me non può che essere Bernard Henry Levy.

Si ride, infine (ma avrò dimenticato qualcosa) del grande problema dello squilibrio demografico, con un cartone animato dai tratti disneyanamente zuccherosi. Si ride e se qualcuno, come l’onorevole La Russa, non ha riso e ha voluto farcelo sapere, pazienza: sono certo che Checco se ne farà una ragione, nella sua avventura africana ha subito ingiustizie più grosse.

Un ultimo avviso. Siccome ogni volta che parlo con entusiasmo di qualcosa c’è qualcuno dei commentatori che si chiede quanti soldi ho preso per farlo, questa volta prevengo la domanda: neanche un euro, in mezzo a tutti ‘sti milioni di incasso, mannaggia!