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Fondo salva-Stati, il vero problema del Mes è il suo masochismo di fondo

La riforma del Mes è stata messa sotto accusa soprattutto perché imporrebbe delle pericolosissime “condizionalità” a uno Stato europeo che volesse accedere agli aiuti del Mes medesimo. In particolare, la cosiddetta Linea di credito condizionale precauzionale (Pccl) sarebbe limitata ai paesi con una situazione economico-finanziaria solida, ma influenzabile da shock negativi. La seconda linea di credito invece, detta Eccl, sarebbe destinata a membri del Mes non abbastanza virtuosi i quali, a quel punto, dovrebbero sottoporsi a una serie di riforme “lacrime e sangue” firmando dei “memorandum” di intesa.

Già la parola memorandum dovrebbe far tremare le vene ai polsi al pensiero di ciò che venne chiesto alla (e ottenuto dalla) Grecia nel 2015, a dispetto di un referendum. Molti critici si sono concentrati, in particolare, su quel punto della riforma in cui si prevede la possibilità di una richiesta di “ristrutturazione” del debito pubblico allo Stato necessitante di liquidità. Questo comporterebbe, per i creditori dello Stato italiano (e cioè per i detentori nazionali del debito pubblico italiano, corrispondenti al 70% circa del totale) un rischio concreto di vedersi “ristrutturare” (id est “tagliare”) i propri risparmi investiti, appunto, in titoli di Stato.

Ciò detto, il vero problema del Mes è la sua filosofia di fondo: talmente illogica e masochistica da sforare nella psicopatologia politica. In pratica, stiamo parlando di un sistema in cui uno Stato precariamente sovrano presta denaro a un soggetto giuridico terzo, composto da membri privi di qualsivoglia legittimazione elettorale, dotati di una immunità e insindacabilità pressoché assolute da fare invidia alle baronie della nostra prima repubblica. Per prestare quel denaro, ovviamente, lo Stato deve indebitarsi con i mercati (unico modo consentito). Poi, quello stesso denaro lo stato potrà ottenerlo, ma solo in prestito, dal Mes e previo rispetto di una serie di “condizionalità” così brutali da mettere in ginocchio qualsiasi economia con qualche residua vocazione “sociale”.

È evidentemente che ci troviamo di fronte a un’idea di fondo assurda, per non dire “psicotica”, se guardata dalla parte della “cosa pubblica”, cioè dei cittadini, ovvero di quella peculiare comunità allargata di consociati usualmente definita come Stato. Ma questa operazione ha, invece, perfettamente senso ed è quanto di più logico si possa immaginare se la osserviamo da una prospettiva opposta: quella di un nuovo ordine politico e sociale in cui delle authority “tecniche” (e quindi “competenti” per definizione) e “indipendenti” (e quindi sganciate dalla necessità di quella investitura popolare tipica di una logica democratica tradizionale) monopolizzano la governance del sistema bancario, monetario e creditizio.

Lo schema non è così folle, insomma, come in apparenza può apparire a una persona mediamente informata e dotata di un minimo di coscienza critica e di sensibilità civica. È stato addirittura teorizzato e codificato, nel Novecento, dagli esponenti della cosiddetta Scuola di Friburgo (dal sociologo Wilhelm Röpke, all’economista Walter Eucken, al giurista Franz Böhm): allo Stato deve essere lasciato l’esercizio di una mera “economia domestica” traducentesi in veri e propri “conti della serva”: una miserabile funzione contabile del dare/avere tra imposte e spese.

Ogni esigenza ulteriore (e, quindi “tutto” perché tutto passa ineluttabilmente dalla necessità di “investimenti”, di “fondi”, di “coperture”, cioè di liquidità supplementare) può essere soddisfatta dallo Stato solo mercé l’intermediazione ferocemente occhiuta di cupole elitarie, riservate, ingiudicabili e quindi “realmente” sovrane. Il Mes è solo l’evoluzione 2.0, per così dire, di un “format” di criteri, valori e credenze ben preciso. Il peccato originale, dunque, non è la riforma del Mes, e neppure il Mes a ben vedere, quanto piuttosto la ratio a esso sottesa: la stessa, identica ratio animante i trattati, il fiscal compact e l’intera archi-struttura dell’Unione europea.

Una ratio che non ripugna soltanto all’ordinario buon senso del quisve de populo, ma soprattutto, e preliminarmente, ai principii supremi della nostra Carta che sono l’antitesi perfetta del “nuovo” ordinamento comunitario di cui sopra. Non a caso, le prime norme costituzionali “corrotte” rispetto ai valori primigeni sono state inserite solo nel 2001 e nel 2012 (modifica degli articoli 81, 97, 117 e 119).

A questo punto, chiunque abbia a cuore la conservazione dell’assetto politico, economico e sociale della nostra convivenza civile, così come pensato dai Padri costituenti nel 1947, deve fare una scelta di campo precisa non solo rispetto al Mes, ma anche nei confronti di tutte le “riforme strutturali” consustanziali al trattato di Maastricht istitutivo dell’Unione europea. Il che richiede uno studio assiduo e una consapevolezza vigilante di cui soprattutto le nuove generazioni, e le “nuove” forme di movimentismo, sembrano drammaticamente prive.