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Auto aziendali, Italia tra i Paesi con le tasse più basse. L’esperto: “Favore fiscale che spesso non ha ragion d’essere. Ma serve gradualità”

La stretta fiscale prevista dalla manovra - di cui però già si studia la cancellazione - colpirebbe 1,5 milioni di lavoratori che usano la macchina fornita dall'azienda anche nel tempo libero. Allineando l'imposizione alla media Ue si punta ad accelerare il rinnovo in chiave green delle flotte, che vengono cambiate ogni 3-4 anni. Nel Regno Unito e nei Paesi Bassi la modifica della tassazione ha comportato un calo delle emissioni

Non colpisce chi utilizza l’auto aziendale esclusivamente per lavoro. Punta a incentivare la transizione a motori ibridi ed elettrici. E riduce un sussidio statale che secondo le ong ambientaliste è “dannoso per il clima”. Ma per le associazioni di categoria è una “proposta vessatoria” che peserà su “milioni di lavoratori”. Non si fermano le polemiche – e il fuoco amico di Italia viva e frange del Movimento 5 stelle – sulla presunta stangata del governo su 1,5 milioni di veicoli aziendali a uso promiscuo, quelli concessi ai dipendenti anche nel tempo libero o per andare in vacanza. Tanto che già si parla di ridurre o eliminare del tutto la tassa durante l’iter parlamentare della manovra. Eppure già nel 2014 l’Ocse ha collocato l’Italia fra i Paesi Ue con le tasse più basse in materia di company car, scrivendo che trattamenti fiscali così benevoli creano “un incentivo a utilizzare le auto aziendali per uso personale e a percorrere distanze più lunghe di quanto potrebbero fare altrimenti”, senza sborsare un euro in più.

“È una situazione di favore che in certi casi non ha ragion d’essere rispetto a chi deve pagare l’auto di tasca propria”, commenta con Ilfattoquotidiano.it Massimo D’Antoni, associato di Scienza delle finanze all’Università di Siena. Da qui l’idea di intervenire in legge di Bilancio per allineare l’imposizione alla media Ue e spingere le aziende a un rinnovo della flotta in chiave green. Cosa che sta già gradualmente accadendo: nel 2018 il 54 per cento di tutte le auto elettriche immesse nel mercato italiano (in continua crescita) è stato destinato proprio alle flotte, che le imprese cambiano ogni tre-quattro anni. E gli esempi di Regno Unito e Paesi Bassi mostrano che modificare la tassazione aiuta a ridurre le emissioni.

Cosa cambia con la norma voluta dal governo Pd-M5s
Oggi il lavoratore che riceve dall’azienda un’auto per uso promiscuo sostiene una parte del peso fiscale. La cifra che va ad aumentare il reddito imponibile in busta paga ed è quindi soggetta a tassazione è stabilita in modo forfettario. Lo Stato l’ha fissata al 30 per cento del valore di utilizzo della vettura (pari a 4.500 chilometri annui e variabile a seconda del modello), perché si presume che soltanto questa fetta sia destinata al tempo libero del dipendente, mentre il restante 70 per cento sia utilizzato a fini lavorativi. Che tu sia un top manager o un impiegato, quindi, e a prescindere dall’effettivo utilizzo del veicolo, l’importo da pagare è pressoché lo stesso, variando leggermente solo in base alle aliquote Irpef in cui si è inquadrati. La norma inserita nella legge di bilancio 2020, però, cambia le carte in tavola. E – dopo una prima retromarcia sull’entità del rincaro – alza la soglia al 60 per cento per le auto a basse emissioni di Co2 (fino a 160 grammi per chilometro) e al 100 per cento per quelle superinquinanti. Con eccezioni: nessun ritocco per i veicoli ibridi o a trazione elettrica, né per quelli assegnati ad agenti e rappresentanti di commercio. All’elenco vanno aggiunti anche i mezzi commerciali e le vetture utilizzate solo per scopi lavorativi, soggetti a un regime più favorevole. Per fare un esempio, chi oggi ha un reddito fino a 55mila euro e ha disposizione una Fiat Panda 1.2 a benzina da 69 cavalli deve aggiungere al suo imponibile complessivo 1.734,8 euro, il che si traduce in un aggravio di circa 400 euro annui sullo stipendio. Se la nuova norma dovesse entrare in vigore, però, questa cifra raddoppierebbe. L’aggravio riguarderebbe circa 1,5 milioni di dipendenti.

Auto aziendali più care per 1,5 milioni di lavoratori. Ma a che scopo?
Quali sono i modelli coinvolti? Si va da utilitarie comuni come la Panda o la Punto 1.2 8V a benzina, fino ad auto di grossa cilindrata come l’Audi A6 Allroad 2.0 a benzina o la Bmw 750i xDrive da 450 cavalli. In proporzione, fa sapere l’associazione nazionale dell’autonoleggio Aniasa, le vetture noleggiate a lungo termine dalle imprese appartengono per il 39 per cento ai segmenti A e B (city car e utilitarie), per il 37 per cento alla fascia media e per il restante 24 alla fascia medio-alta mercato, proprio quella che in virtù della maggiore potenza emette più gas serra. La relazione tecnica alla manovra economica stilata dalla Ragioneria dello Stato, però, ipotizza che “la percentuale dei veicoli a bassa emissione entro 5 anni rappresenti la totalità delle nuove immatricolazioni”. Di conseguenza, l’impatto dell’aumento dell’imposta sulle auto aziendali andrà progressivamente riducendosi. Lo dimostrano anche le previsioni di gettito stimate dal governo. Nel 2020 la misura dovrebbe garantire entrate extra per 332,6 milioni di euro, cifra destinata a salire a 387,4 nel 2021 per poi calare progressivamente a partire dall’anno successivo, proprio grazie all’inevitabile transizione a mezzi meno dannosi per l’atmosfera. D’altronde sempre Aniasa fotografa un processo in parte già in atto: nei primi 6 mesi del 2019 le vetture a trazione elettrica sono aumentate del 42 per cento rispetto allo stesso periodo del 2018, mentre quelle ibride del 9 per cento (pur rimanendo entrambe molto minoritarie in valori assoluti). Anche se, si legge in un comunicato dell’associazione, “la demonizzazione del diesel” sta parallelamente spingendo la richiesta di auto a benzina “con l’effetto paradossale dell’aumento delle emissioni di Co2”.

L’economista: “La norma ha una certa logica, ma serve più gradualità”
“Da un lato va detto che le imprese cambiano la propria flotta ogni 3-4 anni perché scelgono soprattutto la formula del noleggio”, spiega il professor D’Antoni, “per cui la norma dovrebbe incentivare la scelta di veicoli meno inquinanti per ridurre il carico fiscale”. Il problema è che “l’incremento voluto dal governo si applica a tutti i mezzi in circolazione e non solo alle nuove immatricolazioni”, aggiunge. “Perciò chi quest’anno ha accettato un’auto aziendale, l’anno prossimo si troverà a dover gestire dei costi non previsti. Forse servirebbe più gradualità”. Anche se, continua l’economista, la norma ha di per sé “una certa logica” perché interviene su “un favore fiscale che permette a certi lavoratori, penso ai dirigenti, di pagare una vettura molto meno che dovendola acquistare e mantenere privatamente”. A questo si aggiunge l’intenzione dichiarata dall’attuale esecutivo di “disincentivare l’utilizzo dei mezzi privati per ragioni ambientali” o quanto meno di ricorrere a quelli meno inquinanti. La sensazione, però, conclude il docente dell’università di Siena, è che “non sia stata ben chiarita la ratio dell’intervento, visto che il tema delle emissioni è entrato nel testo solo in un secondo momento. L’impressione è che la preoccupazione principale, almeno nella formulazione iniziale del provvedimento, fosse quella di trovare coperture alla manovra”. Stando alla platea di veicoli coinvolti, infatti, è evidente che “si colpiscono persone ad alto reddito che hanno grosse auto di rappresentanza, ma anche chi ha redditi più bassi. E su questo la decisione finale spetta solo al legislatore”.

Il confronto con l’Europa e i rischi di una tassazione troppo bassa
Resta il fatto che mentre in Italia associazioni di categoria, opposizioni e forze interne alla stessa maggioranza si stanno opponendo con forza alla sovrattassa – il leader di Italia Viva Matteo Renzi ha addirittura lanciato una petizione per bloccarla – nel resto d’Europa è già così praticamente ovunque. Lo conferma un report dell’Ocse sulle company car datato 2014 ma considerato comunque attuale dagli esperti (visto che nel frattempo nel nostro Paese questo specifico regime fiscale non è cambiato di una virgola), secondo cui nel vecchio continente il livello medio di tassazione a carico dei lavoratori si attesta intorno al 50 per cento. Soglia che l’Italia potrebbe raggiungere, e superare, solo se la nuova misura entrasse in vigore. Anche se, si legge sempre nel working paper dell’Ocse, fino a quando l’uso personale delle auto aziendali non sarà calcolato sulla base dei chilometri reali, i dipendenti avranno sempre “un incentivo per percorrere distanze maggiori”. Ne conseguono “maggiori emissioni di inquinanti atmosferici e altri costi legati ai viaggi, come traffico e incidenti”. Un giudizio su cui concorda anche la federazione di ong ambientaliste Transport&Environment: “Questo privilegio (pagato con soldi pubblici, ndr) dovrebbe essere considerato un sussidio dannoso per l’ambiente”, si legge in un documento del 2018. Nei Paesi in cui questa imposta si fonda su criteri ambientali, invece, si verificano “effetti positivi a lungo termine, come osservato nel Regno Unito quando la legge sulla tassazione delle auto aziendali è stata modificata”. E lo stesso è avvenuto nei Paesi Bassi, aggiunge T&E, dove la riforma fiscale basata sulle emissioni di Co2 (comprese le company car) “ha portato a un calo delle emissioni dell’11 per cento e a una più alta diffusione dei veicoli elettrici”. E non a caso è proprio qui che “i sussidi alle auto aziendali sono fra i più bassi dei Paesi europei”.