Lavoro & Precari

#10yearschallenge, dalla legge Biagi al reddito di cittadinanza. Com’è cambiato il lavoro in Italia

In questi giorni, i social sono invasi dal tormentone della 10 years challenge. I vip e anche le persone comuni mostrano sul loro profilo la foto di oggi e la mettono accanto a quella di dieci anni prima e chiedono agli amici quale sia la migliore. Se dovessimo fare la 10 years challenge del mercato del lavoro in Italia cosa ne verrebbe fuori? Il mercato del lavoro di oggi è migliore o peggiore di quello di dieci anni fa?

In genere, questa sfida la vincono i giovani, quelli che sono negli -enti/a, e la perdono gli adulti, quelli che sono negli -anta. Ma ci sono anche degli anta che se la cavano egregiamente. Il nostro mercato del lavoro vive di antichi problemi, come la disoccupazione e la precarietà lavorativa, ma anche di nuove sfide, come le recenti continue riforme del mercato del lavoro, forse troppe, e le trasformazioni legate alla globalizzazione dei mercati e alla gig economy. Però, forse, quello che conta di più è il ritardo della crescita e delle riforme del sistema di istruzione, che qui restano nell’ombra per mancanza di spazio, ma sono i veri grandi assenti. Proviamo a mettere ordine.

Nel 2009, dieci anni fa c’era la legge Biagi (o Maroni che dir si voglia) del 2003 che aveva creato una congerie di nuovi contratti di lavoro che se, da un lato, ordinava e regolamentava le nuove forme di lavoro emergenti con l’evoluzione del mercato e trasformava i co.co.co in co.co.pro, dandogli una prima posizione contributiva, d’altro canto, secondo molti, forniva ai datori di lavoro il grimaldello per aggirare il lavoro tipico (a tempo pieno e indeterminato) e assumere molti giovani con contratto di lavoro temporaneo, che costava molto meno, sia in termini fiscali che contributivi.

Insomma, nel 2009, l’articolo 18 era ancora là, poiché “il cinese” Sergio Cofferati, leader della Cgil, il 23 marzo 2002, aveva portato 3 milioni di lavoratori in piazza, gente di sinistra e di destra, per mandare un grosso “vaffa”, forse il primo “vaffa” bipartisan, a Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini, che avevano dichiarato di voler cancellare l’articolo 18 e riformare radicalmente le pensioni. Però, secondo i più maligni, per aggirare il no di quelli che erano scesi in piazza, il leghista Bobo Maroni si inventò la Legge Biagi l’anno dopo, ispirandosi alla larga al Libro bianco di Marco Biagi, ammazzato dalle Brigate Rosse poco prima della manifestazione di Cofferati. In realtà, il Libro bianco resta ancora irrealizzato, poiché, all’epoca, manca ancora la parte sulle politiche passive e attive.

Insomma, dieci anni fa, il Paese era ancora all’inizio di quel percorso che ha portato negli anni successivi più decisamente alla cosiddetta flessicurezza. Quest’ultima nasce per correggere i danni della flessibilità sfrenata che dominava dieci anni fa, quando la percentuale dei giovani assunti con contratti di lavoro tipici si riduce drammaticamente, diffondendo una precarietà lavorativa di massa, un’espressione che è divenuta popolare in quegli anni. Molti danno la colpa alla mancanza di tutele dei temporanei e diversi intellettuali si convincono che convenga rinunciare ad un po’ di stabilità del posto di lavoro per gli insiders, se si ha in cambio maggiore stabilità occupazionale e reddituale, anche perché i datori di lavoro aggirano le garanzie dello Statuto dei Lavoratori del 1970, evitando il contratto di lavoro a tempo indeterminato.

Il grande cambiamento avviene nel 2012, con la Legge Fornero. Nel 2011, il Paese era entrato in una situazione di drammatica crisi economica: la crisi dello spread. Si rischiava la bancarotta. Lo stato rischiava di non pagare gli stipendi ai propri dipendenti: una sorta di shut down. In questa situazione, il ministro del Lavoro dell’epoca, Elsa Fornero, abolisce l’articolo 18, ma lo fa nell’ambito di un provvedimento di legge complesso che presenta i primi termini di un moderno sistema di flessicurezza. Manca ancora la gamba delle politiche attive per l’impiego, però. La Fornero consente per la prima volta il licenziamento economico, che è il grimaldello per aggirare il licenziamento senza giusta causa. Inoltre, la reintegra nel posto di lavoro che, di fatto, è attuata di rado, è sostituita con un indennizzo economico crescente al crescere della durata dei contratti. Ma, allo stesso tempo, si introduce l’Aspi (Assicurazione sociale per l’impiego) con la quale si aumenta il costo del lavoro temporaneo per convincere le imprese ad assumere di nuovo a tempo indeterminato. L’Aspi viene concessa a chiunque abbia lavorato almeno un anno e dà diritto ad un reddito pari al 75% del reddito precedente, entro il tetto dei 1195 euro. C’è anche una mini-Aspi per chi ha lavorato meno di un anno.

Però, il governo di Matteo Renzi pensa che ancora non basti e mette mano a una riforma complessiva dell’intera materia, in otto decreti noti come Jobs Act. Difficile sintetizzare il Jobs Act in poche parole, ma l’idea è completare il sistema di flessicurezza. Contrariamente a quanto sosteneva Renzi, in modo antipatico per la sua parte politica, l’essenza del Jobs Act non è l’abolizione dell’articolo 18 era già stata compiuta dalla Fornero, ma una serie di altre novità. Sull’articolo 18, il Jobs Act rende solo fisse le indennità di fine rapporto, sottraendo ai lavoratori la possibilità di andare in giudizio per farsele aumentare come ancora consentiva la Fornero. Qualche settimana fa, la Corte costituzionale ha dichiarato però incostituzionale questa parte e bisognerà rimetterci mano a breve o tornare alla Fornero.

Poi si cerca di aumentare ulteriormente il costo del lavoro temporaneo, mentre si abolisce l’obbligo di indicare la causale che aveva introdotto la Fornero e che aveva fatto perdere in pochi mesi oltre 200mila contratti di lavoro temporanei. La Nuova Aspi aumenta sussidio e platea, comprendendo anche chi ha avuto un contratto solo di 30 settimane, includendo così molti, se non tutti i temporanei. Assieme al Rei (Reddito di Inclusione) si completa il sistema di sostegno passivo al reddito tipico del modello sociale europeo, anche se il Rei è sotto-finanziato ed esclude ancora troppi poveri. Si introduce anche una riforma importante dei centri per l’impiego (decreto 150/2015) che però resta lettera morta, a causa della mancanza di finanziamento dei vouchers con i quali i disoccupati possono acquistare servizi per l’impiego e formazione per l’occupabilità. Restano fuori anche i rider che non sono coperti né dai contratti collettivi, né da altre forme di tutela.

Il nuovo governo gialloverde vince le elezioni proprio proponendo di coprire i buchi lasciati dal Jobs Act: reddito per tutti i poveri e politiche attive per assicurare l’occupabilità, ma lo fa con un provvedimento che mette tutto assieme. Non sappiamo ancora se avrà successo, ma l’idea è estendere il sussidio di disoccupazione a chi il lavoro non l’ha mai avuto e spingerlo a lavorare con la condizionalità: sussidio contro obbligo di accettare lavoro o almeno formazione. Ma la riforma dei centri per l’impiego sarà in grado di offrire lavoro a tanti disoccupati? La Garanzia Giovani chiesta dall’Europa nel 2014 per dare un’occasione di lavoro, istruzione o formazione ai Neet, finora, ha arrancato proprio per la mancanza di occasioni di lavoro e la disorganizzazione dei centri per l’impiego.

In conclusione, direi che forse negli ultimi dieci anni si sono fatti molti passi in avanti sul percorso verso la flessicurezza garantendo un sistema di sostegno al reddito soddisfacente a chi perde il lavoro e anche a chi vive in condizioni di povertà, ma sono mancati i fondi e poi manca ancora un sistema moderno di attivazione dei disoccupati. Intanto, emergono nuovi bisogni, come quelli della tutela dei rider, la nuova forma, estrema, di precarietà. Il decreto dignità ha reintrodotto la causale della Legge Fornero, ma ha ancora lasciato fuori i rider che aumentano sempre di più di numero e chiedono salario minimo, contratti di lavoro dipendente per entrare anche nei contratti collettivi e imporre così magari una serie di altri diritti: innanzi tutto, coperture assicurative contro i rischi, ma anche diritto alla disconnessione, una richiesta che li accomuna ai teleworker. La nuova sfida è l’emergere prepotente della gig economy.