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Iran e i ponti che cadono. Un ricordo di Elena Sharani Zadeh

(in memoria di Elena Sharani Zadeh, all’Università di Aydin -Turchia- con il Professor Franco Rizzi, fondatore dell’UNIMED, luglio 2012)

In un momento storico delicato come quello attuale, in cui le reintrodotte sanzioni Usa all’Iran (le cosiddette “snap-back sanctions” o sanzioni di “rimbalzo”) hanno già provocato, con effetto a catena, la fuoriuscita o la sospensione dei contratti siglati nel Paese persiano da numerose aziende europee (Siemens, Scania, Peugeot, Renault, Volkswagen, Ferrovie dello Stato, Fincantieri, Eni, Total etc.) dopo l’accordo sul nucleare del 2015 (JCPOE) e la sospensione dei voli diretti a Tehran da molte capitali Ue (tra cui Roma), la cooperazione euro-mediterranea perde un altro suo entusiasta membro: Elena Sharani Zadeh.

Gli iraniani in Italia sono tradizionalmente pochi – 15.430 secondo l’ultima fotografia Istat (2018). La comunità iraniana non è mai stata oggetto di tensioni o razzismo, sia per i suoi esigui numeri, che per l’ampia predisposizione all’integrazione nelle società occidentali e la forte prossimità culturale ai costumi italiani. Gli iraniani amano ricordarci che sono un popolo di piccoli imprenditori, artigiani, commercianti e artisti, proprio come noi. Come noi hanno il loro Papa (la Guida Suprema), anche se il “Vaticano sciita” (il Consiglio supremo degli ayatollah o Consiglio dei guardiani della Costituzione) tutt’ora assomma in sé sia il potere temporale che spirituale, influenzando direttamente le scelte politiche dei poteri elettivi pienamente democratici della Repubblica islamica (il majlis o Parlamento, il Consiglio deli esperti – una sorta di Senato – e il gabinetto di governo, attualmente guidato dall’Ayatollah riformista Hassan Rouhani).

Nell’Ottocento erano gli esuli italiani a fuggire in Iran: i reduci dei moti del 1848, gli anarchici, i mazziniani e poi i garibaldini che combattevano per una certa visione dell’unità d’Italia, costretti a scappare in Oriente per salvarsi dalle persecuzioni. Nel Novecento la rotta migratoria si è poi rovesciata, con lo shah Pahlavi che fuggì a Roma dopo il breve colpo di stato di Mossadeq (1953) e tanti esuli iraniani pro-Pahlavi fuggiti in Europa (e Stati Uniti) dopo l’ascesa di Khomeini e la riconversione del Paese in Repubblica islamica (1979).  Tuttavia, oggi a emigrare sono invece soprattutto giovani iraniani depoliticizzati, che fuggono dal proprio Paese alla ricerca di maggiori diritti e libertà civili, più che in aperta contestazione degli Ayatollah, la linea del governo o della repressione seguita alle due più importanti rivolte di piazza degli ultimi anni: quella post-elettorale dell’Onda Verde (2009) e quella contro il carovita, scoppiata appena un anno fa (gennaio 2018).

I giovani iraniani all’estero non si esprimono molto sulle condizioni di vita nel proprio Paese e questo per molte ragioni: in primis, perché molti di loro non sono cittadini dei Paesi che li ospitano, ma godono soltanto di un permesso di soggiorno temporaneo o addirittura di un visto studio pagato profumatamente (bisogna dimostrare di possedere almeno 10mila euro annui per potersi mantenere, ad esempio, all’università in Italia), in secondo luogo, perché altre preoccupazioni, incentrate sul benessere individuale, hanno preso il sopravvento sull’obiettivo di un cambiamento di regime in patria, ma soprattutto perché non vogliono condannarsi all’esilio e rinunciare alla possibilità di rientrare nel proprio Paese per visitare le famiglie e mantenere un ponte con la cultura di origine. Una scelta difficile quella che spetta a tanti migranti iraniani all’estero, sospesi tra più Paesi e più culture e alla costante ricerca di un equilibrio, che per fortuna non è più quella delle seconde generazioni, ovvero dei cittadini europei di origine iraniana, come la nostra Elena.

La nostra Elena era una ragazza brillante, idealista, curiosa, ironica e appassionata del bello, cittadina del mondo e del Mediterraneo in particolare. Elena abitava a Piazza Vittorio. Lì, proprio dove il radicato pregiudizio e la quotidiana insofferenza verso l’altro possono generare uno “scontro di civiltà”. Come il grande sistema-mondo, anche il piccolo condominio di cui racconta Amara Lakhous (Scontro di civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio, 2006) si sporge nelle vie per raccontare la propria realtà. Uno scontro di civiltà? Elena non era di questa idea; lei, figlia di un musulmano iraniano e di una cattolica italiana, questo scontro di civiltà non lo avvertiva. Ennesima testimonianza della fallacia interpretativa di Huntington. Elena, come amava ribadire, non si vergognava di dire che la sua casa era a Piazza Vittorio. Non era la multiculturalità il problema, come invece qualcuno sembrerebbe sottintendere; piuttosto, diceva, il problema di Piazza Vittorio sono “loro”. Pronome che stava ad indicare quel male assortito e sgradevole nucleo di individui xenofobi, dalla dubbia alfabetizzazione storico-culturale, che fanno tutt’ora capo al partito di indubbia ispirazione fascista denominato “Casa Pound”. Coloro che, insomma, creano lo “scontro fra civiltà” perché avere un nemico fa sempre comodo. Eppure, sotto gli intonaci un po’ scrostati di piazza Vittorio e i profumi delle spezie al mercato Esquilino, Elena, con i suoi occhi scuri e le lentiggini sul naso, questo scontro proprio non lo vedeva. D’altronde, “non si vede bene che con il cuore” e questo Elena lo sapeva.

Dopo essersi diplomata al liceo internazionale francese si era dedicata allo studio della storia dell’arte, sua grande passione. Proprio negli anni universitari, trascorsi nella facoltà di Lettere di Roma Tre, era stata cofondatrice dell’associazione giovanile Youthmed per coltivare il sogno di una nuova generazione mediterranea impegnata e operosa nella cooperazione e nel dialogo interculturale. Era stata conquistata dal professor Rizzi, suo docente all’Università ma anche ispiratore di un profondo amore per una regione – la sponda Sud del Mediterraneo e i Paesi islamici- da molti ritenuta solo come un problema, fonte di tensioni politiche, conflitti religiosi e pressioni migratorie.

Tuttavia, Elena non amava tanto il Mediterraneo attraverso la politica, ma era l’arte il linguaggio comune e universale in cui credeva per abbattere i muri dei pregiudizi e della paura per costruire un Mediterraneo di pace e di prosperità condivisa. Dedicò così una parte della sua vita ad organizzare attività culturali, progetti di mobilità internazionale e di scambio tra i Paesi del Mediterraneo con la guida del compianto professor  Franco Rizzi, fondatore dell’Unimed, anche lui venuto a mancare quasi due anni fa. Come per tanti altri giovani italiani della sua generazione, i sogni e i tanti progetti degli anni universitari si scontrarono con condizioni di precarietà e sfruttamento a cui il mondo del lavoro, sempre più spietato e cinico, condannò lei come tanti suoi coetanei, senza tuttavia riuscire mai a scalfire la sua dignità, il suo senso della giustizia e il suo sfrenato ottimismo. Un ottimismo che nulla ha potuto contro l’imperversare di un altro male, peggiore del malessere sociale ed economico e perfino delle tensioni geopolitiche, perché fuori dalla portata dell’agire e della comprensione umana: la sua malattia. Nel marzo del 2013 giungeva all’associazione una sua email in cui si scusava di non poter dedicare abbastanza tempo alle attività della stessa, comunicando una triste notizia:

Per me le idee alla base di Youthmed e le iniziative che insieme abbiamo portato avanti rappresentano gli anni dell’università, un pezzo importante della mia vita. In questo momento io non posso offrire il supporto e le energie che l’associazione meriterebbe. Sto affrontando una battaglia più importante, quella contro il cancro, che assorbe completamente le mie forze e che segna una fase della mia vita sicuramente non facile ma dalla quale sono convinta di poter uscire.

Alla battaglia più importante della sua vita ha dedicato questi ultimi sei anni, con coraggio e speranza testarda, fino al 17 dicembre 2018. Mentre scriviamo queste poche parole in sua memoria Elena riposa libera e in pace nelle acque del suo Mediterraneo. I suoi amici e collaboratori vorrebbero ricordarla oggi e per sempre come un ponte lanciato verso l’Iran, come una pagina bella dell’incontro tra due Paesi e due culture, nella speranza che oggi non tornino a chiudersi l’uno all’altro.

Claudia De Martino, Loredana Rubeis, Andrea Masseroni e tutti gli amici di Youthmed.