Società

Noi italiani siamo razzisti o no? La risposta non è scontata

Il colore dei morti conta, nel Mediterraneo casca un ponte ogni giorno e giriamo la testa da un’altra parte, quei morti non sono più una notizia. Magari qualcuno pensa e dice al bar: “Se la son voluta, era meglio se stavano a casa loro”. Altri provano uno sgomento impotente. Poi c’è qualcuno che va al porto per testimoniare solidarietà umana e sulla banchina ci sono anche quelli dei respingimenti, i militanti di Forza Nuova che hanno trovato in Salvini il loro uomo forte, magari poco saggio ma forte, altro che la Meloni.

Allora, noi italiani siamo razzisti o no? Purtroppo non è una domanda da quiz, nessuna delle alternative è la risposta esatta. Lasciamo stare la scienza e in particolare la genetica che ha levato ogni fondamento alle teorie razziali da tempo. Qua è questione di pancia e di cuore, la testa arriva dopo , quando arriva.

Per capire di più dobbiamo andare indietro moltissimi anni, quando negli stati americani del Sud accadevano i linciaggi dei neri. Uno studio sociologico ha mostrato una correlazione precisa con la scarsità del raccolto del cotone. Ovvero quando la distanza economica tra il bianco e il nero si assottigliava, la frustrazione dei bianchi poveri andava verso gli ultimi, i neri, i diversi, per marcare la propria identità e diventava furore che esplodeva alla prima occasione. Meno cotone, più linciaggi: matematico.

Tutto questo si è sempre appoggiato su pregiudizi senza alcun fondamento. I neri puzzano? Per gli asiatici sono i bianchi che puzzano – per l’esattezza puzzano (puzziamo) di cadavere -, per gli americani che ricevevano gli emigranti italiani a Ellis Island erano questi a puzzare. Sono stato fatti perfino esperimenti per dimostrare l’inconsistenza di questi pregiudizi, chi vuole saperne di più legga un classico della psicologia sempre attuale: La natura del pregiudizio di Gordon Allport.

Hanno fatto odorare dietro una tenda degli sportivi bianchi e neri dopo l’allenamento (e prima della doccia): non ci hanno indovinato, non più del casuale 50%. Il razzismo cresce con i numeri e gli arrivi. Ricordo invece 30 anni fa la cordiale curiosità in un paesino dell’appenino modenese, per Alì, venditore di tappeti, con anche qualche domanda “culturale” sulle sue credenze. Ma erano ancora pochi gli immigrati e questo fa una grande differenza.

Si è visto anche studiando i ratti che l’aggressività intraspecie scatta con l’affollamento, quando il numero supera una certa massa critica e lo spazio vitale si riduce. È il nostro caso? Sì e no: sappiamo che vi è una sovrastima della presenza straniera, se chiedete in qualsiasi bar vi parleranno del 20-30%. “Son più loro che i nostri !”, giurava una donna. Ma conta la percezione, non la realtà. E conta il pressappochismo dei governi degli ultimi 30 anni che non sono riusciti ad accogliere con dignità chi doveva essere accolto e rimpatriare i delinquenti. Oggi i migranti valgono voti e tutti si muovono facendo calcoli. Bisogna dare atto alla Merkel di essersi presa grandi rischi dicendo (parafrasando): “La Germania è un grande paese e può accogliere 800mila persone“.

È interessante che quasi nessuno voglia essere chiamato razzista, almeno pubblicamente. C’è un punto fondamentale: non ci si deve dividere tra razzisti e antirazzisti, ma tra razzisti, antirazzisti e non razzisti.

Tra i non razzisti troveremo molte persone spaventate dal mutare dei quartieri, dalle lingue che non si capiscono, dalle usanze che non si conoscono e neanche si vogliono conoscere: vorremmo semplicemente che lo straniero si uniformasse alle nostre usanze e restasse gradevolmente invisibile, salvo nei campi dove si raccolgono i pomodori a due euro l’ora. Ma tanto chi li vede lì è ben contento che ci siano, caporali al servizio di proprietari che commettono un reato di sfruttamento ogni mattina.

E chi di noi non razzisti o antirazzisti non prova imbarazzo di fronte al ragazzo che ti aspetta alla porta del supermercato e ti lascia sempre incerto tra il far finta di non vedere, allungare una moneta, chiedere in cambio simbolicamente un servizio: mi porti le borse in macchina? Chiedere il nome, da dove viene, magari perché è qua. Wisdom è nigeriano e cristiano, mi ha spiegato che lo avrebbero ucciso con altri cristiani nella chiesa, se fosse restato: Bokol Harum per lui è memoria di tragedia vista. Ha 26 anni e pensa che tutto sarà molto facile, qui. Vedo che il giornalaio gli fa sistemare le riviste negli scaffali, un altro negoziante lo fa spazzare davanti al negozio.

Forse c’è speranza, auspico che non intervenga subito la burocrazia che tollera il caporalato e magari stanga chi si fa aiutare in giardino per due ore. E chi si fa aiutare una volta non teme di ritrovarsi alla porta una coda di persone che chiedono lavoro? Quante riserve mentali, anche legittime dentro di noi. Chi non si è stufato sulla spiaggia al 20esimo ragazzo che ti vende teli? Chi si è vergognato di un piccolo sollievo provato nel vedere un proprietario di ristorante che allontanava con gentilezza un venditore un po’ insistente, un po’ aggressivo? A me è capitato e capita e mi sento in contrasto con me stesso, e anche un po’ confuso sui miei valori.

Ma la vergogna più grande l’ho provata quando la proprietaria di un bar trattoria di Arezzo ha insultato un magrebino che veniva per la seconda volta, con parole che non avrebbe mai osato dire a un italiano. Non ci sono più andato per cinque anni, finché non è cambiata gestione, ma il mio silenzio di allora mi pesa. Siamo onesti, bisogna fare i conti anche col piccolo razzista, o il piccolo vile, o il piccolo menefreghista che è in noi. In fondo c’è sempre la piccola paura di perdere qualcosa.