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Midterm Usa, le elezioni si avvicinano e nessuno è al sicuro. Nemmeno Trump

Meno di tre mesi alle elezioni di medio termine (le midterm elections) negli Stati Uniti: martedì 6 novembre, i cittadini americani saranno chiamati a rinnovare tutta la Camera – 435 seggi, i deputati hanno mandati biennali – e un terzo del Senato – 100 seggi, i senatori restano in carica sei anni -, oltre che a votare per numerosi governatori e assemblee statali e a esprimersi su tutta una gamma di referendum e consultazioni locali. Ma l’esito della consultazione sarà soprattutto letto come un giudizio sulla prima metà del mandato di Donald Trump, in chiave 2020.

Entrato alla Casa Bianca il 20 gennaio 2017, il magnate ha finora goduto della maggioranza sia alla Camera, dove i repubblicani hanno 235 seggi, sia al Senato, dove ne hanno 51. Nonostante ciò, a parte la riforma fiscale, Trump non è riuscito a realizzare altri punti cruciali della sua agenda elettorale interna come lo smantellamento dell’Obamacare, la riforma sanitaria di Barack Obama – dove procede pezzo a pezzo – o la riforma delle politiche dell’immigrazione – pure qui, procede pezzo a pezzo, non riuscendo a ottenere dal Congresso il finanziamento del muro che vuole innalzare al confine con il Messico – e in almeno due occasioni è giunto ai ferri corti con deputati e senatori, con lo “shutdown” (la chiusura) delle amministrazioni federali.

L’handicap democratico della valanga “liberal” e “sanderista”
A novembre, i democratici puntano a riconquistare almeno un ramo del Congresso per potere rendere più efficace la loro opposizione all’amministrazione Trump. Ma la polarizzazione, esacerbata nella politica americana dal magnate presidente, costituisce per loro un handicap. Infatti, dalle primarie democratiche sono usciti vincitori, a volte a sorpresa, numerosi candidati “liberal” e/o “sanderisti”, cioè sostenitori nel 2016 del senatore del Vermont Bernie Sanders, un “socialista” irriducibile antagonista di Hillary Clinton per la nomination democratica.

Fra di essi, giovani donne come Alexandria Ocasio-Cortez (28 anni, di origini ispaniche) capace d’imporsi nelle primarie a New York su un deputato di provata esperienza come Joe Crowley; o Rashida Tlaib, che diventerà la prima donna musulmana mai eletta dal Congresso dopo avere vinto le primarie democratiche in un collegio “sicuro” del Michigan – Rashida correrà praticamente senza avversari – finora tenuto da John Conyers jr. Sia la Ocasio-Cortez che la Tlaib vengono dai ranghi dei Democratic socialists of America, un’etichetta che può galvanizzare l’elettorato più progressista, ma che può anche preoccupare quello moderato e centrista e spaventare, e quindi mobilitare, quello conservatore e “trumpiano”.

I repubblicani giocano di rimessa…
E questa, al momento, appare proprio la scelta dei repubblicani, nelle cui fila avanzano i “trumpiani” e che perdono punti di forza conservatori non moderati come Paul Ryan, speaker della Camera, che non si ripresenta dopo non avere mai mascherato la mancanza di feeling con il presidente Trump: la tattica è polarizzare lo scontro e sperare di trarre profitto dallo spostamento a sinistra democratici, in un Paese dove la parola “socialista” è sempre stata e resta uno “spauracchio”.

Tanto più che, accanto alle donne – quattro potrebbero conquistare come governatrici Stati finora sempre maschili -, emerge un numero record di candidati Lgbt: reazione quasi scontata al fatto che l’amministrazione Trump e i singoli Stati stanno erodendo i diritti loro riconosciuti dall’amministrazione Obama. Oltre 400 politici Lgbt stanno facendo campagna e alcuni sbandierano esplicitamente i temi della sessualità, del genere e della razza, denunciano l’arretramento in atto sul fronte dei diritti civili.

… ma restano vulnerabili
D’altro canto, le suppletive e le primarie tenutesi negli ultimi mesi e settimane hanno fatto emergere le vulnerabilità dei repubblicani, specie nelle aree abitate dalla classe media e fra i moderati: gli uni hanno tratto scarso vantaggio dalla riforma fiscale (almeno rispetto alle loro speranze), i secondi mal digeriscono la grossolanità del presidente. Sintomatici, in questo senso, i risultati del voto nell’Ohio martedì scorso – il 7 agosto è stato l’ultimo super-Martedì di suppletive e primarie, prima delle midterm elections.

Il candidato repubblicano sostenuto a spada tratta da Trump, Troy Balderson, s’è imposto dopo una campagna dispendiosissima sul rivale democratico Danny O’Connor, ma con un margine molto risicato, tuttora soggetto alla riconta dei voti, mentre questo distretto (appena fuori Columbus, la capitale dello Stato) era dal 2010 un “feudo” repubblicano. Qui Trump aveva vinto due anni fa con oltre 11 punti di margine.

Erosioni analoghe vengono segnalate nel Kansas – dove meno di cento voti separano gli aspiranti alla carica di governatore – in Alabama e nella Georgia, tutti Stati “trumpiani”. C’è di che alimentare visioni preoccupate sulle midterm elections, specie alla Camera, dove i repubblicani devono conservare almeno 218 seggi e quindi, possono perderne una quindicina al massimo. Al Senato, invece,dove la maggioranza è molto più risicata, i seggi a rischio che vanno al voto sono più democratici che repubblicani e, quindi, le prospettive di un rovesciamento della maggioranza sono meno robuste.

Citato dal New York Times, il senatore repubblicano della South Carolina Lindsey Graham, già candidato alla nomination nel 2016, pronostica che i democratici conquisteranno la maggioranza alla Camera e arrivino a 230 seggi. E il giornale nota che il presidente, che si rallegra del successo dei suoi candidati nelle primarie repubblicane di martedì scorso in Kansas, Michigan, Missouri e nello Stato di Washington, è in larghissima misura il responsabile del clima politico che condiziona le speranze di affermazione repubblicana il 6 novembre.